LaPresse
Il racconto
Alle elezioni farsa in Birmania c'è chi risponde con la resistenza
Il voto è un inganno in tutti i sensi, a partire dal modo in cui si svolge, in tre fasi e non in tutto il paese. “Non so quanto tempo ci vorrà, ma dobbiamo farcela da soli e sul campo. I birmani non sono come i cinesi o gli indiani. In nessun caso legittimeranno chi li opprime”, ci dice il giornalista Hanthar Nyein
Mae Sot. “È la solita vecchia storia”, dice Hanthar Nyein, un giornalista birmano rifugiatosi in Thailandia dopo aver trascorso quattro anni nella famigerata prigione di Insein. Ascoltarlo è una lezione di coraggio e impegno. È impressionante stare a sentire uno che ti racconta di come lo hanno bendato, incappucciato, picchiato, torturato e che un attimo dopo scherza, ride, parla del futuro. Perché secondo Hanthar c’è un futuro per lui, la sua famiglia, la Birmania. Solo che non è il futuro pensato dai generali con le elezioni iniziate il 28 dicembre. “È una vecchia strategia. Un golpe seguito da elezioni seguite da un golpe. Un ciclo che si ripete di continuo. Adesso si sono convinti che le elezioni potranno legittimarli. Per l’ennesima volta vogliono ingannare il popolo”.
Le elezioni sono un inganno in tutti i sensi. A partire dal modo in cui si svolgono, in uno scenario di complessità kafkiana: in tre fasi (le successive l’11 e il 25 gennaio) e a macchia di leopardo in diverse parti del paese, non tutte. “Sembra che la commissione elettorale non abbia capito la riforma elettorale”, commenta senza alcuna ironia una fonte del Foglio in contatto con i gruppi della resistenza. I risultati ovviamente si avranno solo a fine gennaio e saranno confusi, truccati, indecifrabili. L’altro ieri, dopo che si è chiusa la prima delle tre fasi di voto, i militari avevano già rivendicato una “vittoria schiacciante”.
Secondo Hanthar il futuro è nella resistenza. “Non so quanto tempo ci vorrà, ma dobbiamo farcela da soli e sul campo. I birmani non sono come i cinesi o gli indiani. In nessun caso legittimeranno chi li opprime”. Nonostante il suo orgoglio nazionalistico, non può negare le divisioni interne che sinora hanno afflitto la resistenza, compreso il National Unity Government (Nug), il governo ombra, e il suo braccio armato, la People Defence Force. “Se metti due birmani in una stanza avrai tre partiti”. La sua speranza sono i giovani. “Le nuove generazioni hanno meno senso etnico, potrebbero rinunciare alle identità tribali, unirsi in una nuova alleanza. Loro stanno già combattendo per una federazione birmana democratica, rifiutano ogni compromesso elettorale”. L’altra grande speranza di Hanthr è Aung San Suu Kyi. “Lei è la nostra carta vincente”. Secondo lui i militari potrebbero liberarla nella loro ricerca di una “exit strategy” dal golpe. Così facendo, però, offrirebbero alla resistenza la figura unificante. Per quanto sia stata delegittimata all’estero da una dissennata campagna che le contestava la sua scarsa attenzione alla causa dei Rohingya, per i birmani Suu Kyi resta ancora la “regina di cuori”.
Ancora una volta, come tante altre prima, lo scenario per osservare queste elezioni liberi da ogni vincolo di censura è Mae Sot, città di trafficanti e rifugiati al confine tra Thailandia e Birmania. Che, quasi a confermare la mia scelta, la notte del mio arrivo mi accoglie con la notizia di esplosioni, colpi d’artiglieria, scontri a fuoco e bombardamenti a Myawaddy, la città birmana sull’altro lato del confine oltre il fiume Moei, territorio di scontro tra milizie etniche e paragovernative, base per le Triadi cinesi che controllano le vicine scam city con un giro d’affari pari al prodotto interno lordo di Cambogia, Laos e Birmania messe assieme.
“Sono attacchi diretti alle sedi dell’Usdp (lo Union Solidarity and Development Party, il partito dei militari). Quindi sono attacchi per veicolare il messaggio che la popolazione è contraria alle elezioni, ma ancor più ai militari”. Anche per la fonte del Foglio le elezioni sono una tattica che prevede il rimpasto di nuovi ruoli esecutivi e offre una parvenza di stabilità e di cambiamento sulla scena internazionale. In questa prospettiva, almeno nei piani del generale Min Aung Hlaing, le elezioni potrebbero rilanciare il turismo e Yangon potrebbe aspirare al ruolo di “città aperta” del sud-est asiatico. Aperta a ogni traffico. Per la fonte del Foglio, uomo abituato a leggere gli intrighi nascosti in ogni manovra politica, la legittimazione è diretta soprattutto a compiacere russi e cinesi. In tal modo le elezioni formalizzano un sistema politico ibrido tra militari e amministrazione civile che entrambe le potenze comprendono e gli sembra offrire una buona giustificazione agli interventi e agli investimenti nel paese. “I birmani promettono terre rare a tutti e i russi stanno investendo moltissimo soprattutto in cybersicurezza”. Per Pechino, inoltre, è strategico l’accesso all’Oceano indiano attraverso il porto in acque profonde di Kyaukpyu e da là il controllo del gasdotto che arriva in Yunnan, possibile solo tramite accordi sia con una “amministrazione nazionale” sia con i gruppi etnici armati locali. Per il nostro uomo, infine, le elezioni hanno anche un motivo interno. “Le truppe sono stanche e i generali vogliono dare l’impressione di una exit strategy che permetta ai soldati il ritorno alla normalità”.
“Non m’interessano queste elezioni. Siamo solo stanchi. La gente vuole che tutto finisca”, ammette con tristezza una donna che lavora in una ong. Era un’insegnante ed è fuggita dalla Birmania nel 2022, quando la repressione dei militari è divenuta più violenta. La incontro mentre con un altro gruppo di donne, tutte di etnia Karenni, compresa una suora cattolica, sta preparando longyi (il tradizionale indumento birmano) e collane etniche da vendere al mercato birmano di Mae Sot. “I giovani sono costretti a fuggire per evitare la coscrizione obbligatoria. I vecchi devono fuggire perché non hanno più casa”, dice, indicando la vecchia zia che ci osserva impassibile ed elegantissima nel suo costume tradizionale. “L’unica possibilità è la lotta di popolo. Tutti gli altri, partiti, gruppi, sono complici o traditori”.
Nemmeno Htlein, un vecchio amico, crede nelle elezioni. “Ho il cuore spezzato, ma loro controllano solo le armi, non i nostri cuori”, dice. Lui teme soprattutto la stanchezza del popolo. Anzi, la fame. “Prima eravamo poveri, vivevamo felici. Adesso moriamo di fame”. E così l’unica soluzione appare quella di combattere. “Siamo come un cane. Se lo hai sempre picchiato alla fine non basta qualche carezza, lui si ribella”.