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editoriali
L'altra tregua, ma made in China
La Thailandia non si fida della Cambogia, ma non ha più alternative: il presidente americano Donald Trump prima ha incoraraggiato un accordo, poi è passato rapidamente ad altro. Ora la Cina ha l'occasione per essere considerata la forza stabilizzatrice nel sud-est asiatico
Il cessate il fuoco tra Thailandia e Cambogia, in vigore da sabato a mezzogiorno, è stato presentato a Pechino come una prova di “diplomazia utile”. Dopo due giorni di colloqui nello Yunnan, i ministri degli Esteri dei due paesi e il loro omologo cinese Wang Yi hanno prodotto un impegno a congelare le linee del conflitto, far rientrare i civili e cooperare sullo sminamento e sul contrasto al cybercrimine (cioè le famigerate scam city). La Cina ha promesso inoltre aiuti umanitari agli sfollati sia thai sia cambogiani.
Eppure l'accordo nasce già sbilenco. Bangkok accusa Phnom Penh di aver già violato l’accordo, con “oltre 250” droni rilevati nella notte di domenica, e avverte che potrebbe riconsiderare la liberazione di 18 soldati cambogiani detenuti. Ieri un altro soldato thailandese ha perso una gamba saltando su una mina antiuomo cambogiana. E il punto più delicato riguarda la cornice di questa ennesima tregua, questa volta negoziata dalla Cina. Perché Pechino tenta di trasformare una crisi regionale in un palcoscenico per il proprio ruolo internazionale, mentre la presidenza Asean passa alla Filippine dal primo gennaio 2026 e la mediazione regionale entra in una fase di riassestamento.
In un commento su X, l’analista Euan Graham ha scritto che legittimamente la Thailandia diffida di un processo in cui il mediatore è cinese, e il governo cambogiano è troppo vicino a Pechino, ma Bangkok ha poche alternative: il presidente americano Donald Trump, che dovrebbe essere il miglior alleato della Thailandia, prima ha incoraggiato un accordo, ne ha rivendicato la paternità trattando i due paesi come eguali, e poi è passato rapidamente ad altro, senza costruire un meccanismo di garanzia continuativo. La tregua è diventata così un asset per qualcun altro: per Pechino è reputazione, per Phnom Penh l’ennesima copertura politica. Se la tregua a questo punto dovesse reggere, Wang Yi avrebbe consolidato, almeno nel sud-est asiatico, l’idea di una Cina capace di produrre stabilità. Se crolla, la credibilità del mediatore verrà messa alla prova, fino al prossimo vuoto lasciato da Trump.