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Il “miracolo” della cooperazione rafforzata

Renato Brunetta

Una soluzione inedita, e per molti versi dirompente, ha permesso di aggirare all’ultimo Consiglio europeo le fratture politiche che si erano create sul sostegno all’Ucraina. Potrebbe essere il modello futuro dell’Unione

A voler interpretare le conseguenze strutturali della decisione presa dal Consiglio europeo all’alba dello scorso 19 dicembre, dopo una notte in cui i leader europei si sono confrontati in una confusa commistione tra giochi cooperativi e non cooperativi, alla fine, visto come sono andate le cose, difficilmente si troverebbe un concetto descrittivo più calzante di quello di “eterogenesi dei fini”. Il filosofo Wilhelm Wundt l’aveva elaborato in maniera limpida: l’azione collettiva, specie quando è segnata da conflitti, veti e razionalità divergenti, tende a produrre esiti che non coincidono con le intenzioni originarie dei suoi protagonisti, talvolta persino rovesciandoli al contrario. E’ esattamente quanto è accaduto sul nodo del sostegno all’Ucraina, sciolto non attraverso la ricomposizione delle fratture politiche, ma attraverso il loro aggiramento, dando vita a una soluzione inedita e, per molti versi, dirompente. Una soluzione di buon senso!

 

Si è partiti dagli egoismi nazionali e dalla sfiducia reciproca: le divisioni in seno al Consiglio erano evidenti: il piano a) in tema di utilizzo degli asset sovrani russi appariva troppo complesso, ai più incomprensibile, data l’ora, probabilmente non sufficientemente ponderato… Alla fine, però, con una sterzata improvvisa presa all’ultimo minuto utile, si è optato per una soluzione: la b), il debito comune, potenzialmente foriera di sviluppi di enorme portata. Perché essa potrebbe incidere sui futuri equilibri costituzionali e geopolitici dell’Unione, segnando un precedente storico, avendo fatto ricorso alla “cooperazione rafforzata” per la creazione, appunto, di debito nell’ambito della sicurezza e del sostegno militare. 

 

Ciò è avvenuto in un momento particolarmente delicato, in cui le oscillazioni della politica statunitense tornano a destare preoccupazione tra i leader europei, privi di garanzie: con Donald Trump, che ha interrotto la fornitura di nuovi aiuti militari a Kyiv; e Vladimir Putin, impegnato a costruire la narrazione della propria vittoria. 

 

L’Unione europea si è, dunque, trovata di fronte a una delle sue prove di resistenza più dirimenti. Non si trattava soltanto di assicurare l’ennesimo pacchetto di aiuti all’Ucraina, ma di decidere, ancora una volta, attraverso quali strumenti e secondo quali logiche agire come potenza geopolitica matura

 

Alla luce di tali premesse, il testamento politico di Jean Monnet si rivela ancora oggi di straordinaria attualità. 

 

In una nota citazione, l’illustre statista francese, uno dei padri fondatori dell’Europa, aveva acutamente osservato che “l’Europa si farà nei momenti di crisi” e che, in definitiva, essa “non sarà altro che la somma delle soluzioni apportate a tali crisi”. Benché abusata, questa intuizione continua a offrire una chiave di lettura sorprendentemente efficace degli sviluppi più recenti dell’integrazione europea. Sempre più in mano a “volenterosi opportunisti”. Di strappo in strappo, di crisi in crisi. Gli eventi che hanno condotto alla decisione del Consiglio europeo sulla “cooperazione rafforzata” lo rendono evidente in maniera quasi apodittica.

 

Ma procediamo con ordine. In origine, il congelamento degli asset russi era legato ai rinnovi semestrali delle sanzioni, ciascuno dei quali richiedeva l’unanimità, essendo materia di Politica estera e di sicurezza comune (PESC). Ciò rendeva il regime fragile, esposto al veto di un singolo stato. Con una decisione del Consiglio Ue del 12 dicembre scorso, fondata sull’art. 122 del Trattato sul funzionamento dell’Ue (TFUE), gli stati membri hanno convenuto di congelare gli asset russi, circa 210 miliardi di euro, su base permanente, eliminando la necessità del rinnovo periodico. Si tratta della clausola di emergenza, che consente al Consiglio, in assenza del coinvolgimento del Parlamento, di adottare misure temporanee e  di solidarietà in situazioni di crisi. Già utilizzata durante la pandemia, viene oggi prospettata per ovviare alla regola dell’unanimità in ambito di difesa,  invocando tuttavia difficoltà sul piano economico e commerciale dell’Unione.

 

Già allora si sarebbero potuti individuare i prodromi degli sviluppi successivi: infatti, nella presa di posizione di Italia, Malta, Bulgaria e Belgio, contenuta nella dichiarazione interpretativa del 12 dicembre, rilasciata a margine della decisione del Consiglio, gli stessi Paesi avevano limitato la portata del proprio consenso, accettando il blocco permanente degli asset russi “in uno spirito di cooperazione”: la sfumatura è importante e vale la pena sottolinearla anche per i non addetti ai lavori.

 

Quando il dibattito, però, si sposta dal blocco degli asset alla loro utilizzazione per finanziare l’Ucraina, emerge il dissenso: un dissenso che rischia di diventare stallo politico, visto che, per di più, la soluzione alternativa dell’emissione di debito europeo sarebbe dovuta avvenire passando, proprio, per l’unanimità. 

 

Quali sono gli schieramenti in campo? Fra i principali sponsor dell’idea di un uso degli asset russi vi è la Germania del cancelliere Merz, con il supporto dei paesi c.d. frugali, che ritengono che sia l’unica opzione politicamente percorribile contro le ambizioni neo-imperiali russe, per continuare a finanziare l’Ucraina, evitando di esporsi con debito europeo.

 

Qualche problema, però, l’uso degli asset lo avrebbe dato, quanto meno dal punto di vista finanziario e giuridico. Il Belgio è stato il primo a porre importanti caveat. Il primo ministro De Wever, con l’appoggio di tutto il Parlamento, subordina la sua approvazione alla condizione che, in caso di condanne giudiziarie, risarcimenti o sequestri derivanti da azioni legali promosse dalla Russia (o da soggetti collegati), le conseguenze nefaste non ricadessero sul Belgio, ma fossero assorbite collettivamente dagli altri Stati membri o dal bilancio Ue. La posta in gioco diventa alta e la richiesta incontra subito l’opposizione di una minoranza di stati membri, tra cui Italia e Francia, visto che avrebbe comportato un pericoloso precedente di mutualizzazione illimitata del rischio legale. Secondo quanto rappresentato dal Financial Times, la Russia ha, infatti, già intentato causa contro l’operatore finanziario Euroclear, società registrata in Belgio e custode di gran parte degli asset russi immobilizzati in Europa. Mosca, cioè, chiede la restituzione degli asset, ritenendo che siano stati trattenuti ingiustamente, e Putin, nella sua conferenza stampa di fine anno, ha descritto come “rapina a cielo aperto” o “furto” la proposta avanzata da alcuni leader europei di utilizzare i beni statali russi congelati per sostenere finanziariamente l’Ucraina, denunciando che un’azione del genere avrebbe avuto conseguenze molto negative, a partire da un contenzioso giuridico senza precedenti. 

 

Se i mercati si basano sulla fiducia e sulle profezie autorealizzantesi, non stupiscono, allora, i dubbi sulla stabilità dell’Eurozona. Se gli operatori dei mercati temessero confische di asset sulla base di ragioni meramente politiche, gli stessi potrebbero essere indotti con reazioni a catena a trasferire le proprie disponibilità verso giurisdizioni percepite come più sicure. Ciò potrebbe non solo minare la tenuta di Euroclear, ma anche quella degli altri depositari di titoli, andando a destabilizzare i mercati da essa serviti, in un circolo vizioso. La posizione di Putin ha rafforzato il dissenso in seno al Consiglio europeo, ma fino a un certo punto, perché alla fine si è trovato, comunque, il modo di procedere “a due velocità”. 

 

La Germania, assieme alla Commissione, porta così avanti l’idea di un Reparation Loan, un prestito di riparazione che conterrebbe (quasi tutte) le garanzie richieste dal Belgio. Durante il Consiglio del 18 dicembre, però, emerge convulsamente l’impraticabilità di questa opzione, perché considerata da alcuni paesi squilibrata e costosa. I paesi ne prendono atto solo alla fine del Consiglio, con il presidente Meloni che riesce ad avere un ruolo di primissimo piano, portando la Francia dalla propria parte – perplessa ma non ostile alla Germania – e indebolendo l’asse Merz-von der Leyen. 

 

Si mette, dunque, da parte l’opzione dell’utilizzo diretto degli asset russi (quasi con un generale senso di sollievo) e si sceglie il percorso di backup: un prestito di 90 miliardi di euro all’Ucraina per il 2026-2027, affidando alla Commissione europea il compito di raccogliere le risorse sui mercati finanziari. Il debito, inoltre, sarà garantito dallo stesso bilancio Ue, attraverso i margini disponibili (“headroom”) e non dagli asset russi in quanto tali. Sarà poi rimborsato da Kyiv solo una volta ricevute le riparazioni. In caso di impossibilità dell’Ucraina di rimborsare il prestito, il costo sarà sostenuto dai contribuenti europei. Qual è, però, il dato di fatto importante che emerge da questa decisione? E’ che la quadra non è mai stata trovata. In altre parole, ci si è resi conto che, rispetto alla soluzione iniziale, stavolta ci sarebbe stato il veto del trittico Ungheria, Cechia e Slovacchia, Paesi che, peraltro, non si erano opposti al Reparations Loan. Questo ha impedito di raggiungere la prescritta unanimità e, a quel punto, nello spazio opaco del Consiglio europeo, lontano dai riflettori, è scattata la soluzione ponte: la cooperazione rafforzata per fare debito comune. 

 

Del resto, ogni scelta ha un prezzo: il ricorso al debito ha certificato una divaricazione politica esistente. Perciò, grazie alla messa in campo dell’art. 212 TFUE, Ungheria, Cechia e Slovacchia hanno ottenuto l’opt-out e, pur acconsentendo formalmente alla decisione, non parteciperanno alla garanzia del debito di 90 miliardi di euro attraverso i loro contributi al bilancio europeo. 

 

Con questa configurazione si è impedito che ventiquattro Stati membri, rappresentativi della quasi totalità del pil, della popolazione e del territorio dell’Unione, fossero bloccati dai veti di una minoranza politicamente rumorosa ma economicamente marginale. 

 

Ecco però l’eterogenesi dei fini: la decisione (ufficialmente) del 18 dicembre, infatti, è stata adottata all’unanimità, ma il suo prodotto è l’attivazione di una procedura, come la cooperazione rafforzata, che supera proprio le ingessature dell’unanimità. Si tratta di un passaggio di portata costituzionale rilevante: unanimità nella procedura, maggioranza nella sostanza. Che sia questo, allora, il modello futuro di gestione del dissenso in seno alle istituzioni governative dell’Ue? Abbiamo, forse, raggiunto, in tal guisa, un equilibrio di Nash che permette a tutti gli attori del gioco di ottenere il massimo dalla propria strategia?

 

La “cooperazione rafforzata”, per adesso, è stata utilizzata in meno di dieci occasioni nella prassi dell’Unione e quando ciò è avvenuto, lo si è fatto in ambiti di sicuro più marginali: pensiamo al caso del brevetto unitario europeo, della legge applicabile al divorzio, della tassa sulle transazioni finanziarie, o del regime patrimoniale delle coppie internazionali. Solo la cooperazione rafforzata finalizzata all’istituzione della procura europea – European Public Prosecutor’s Office (EPPO) – ha toccato una materia sicuramente più delicata. 

 

Questa volta, però, sono state varcate le colonne d’Ercole, e l’ingresso in una sfera così intimamente connessa alla sicurezza, alla politica estera e alla sopravvivenza strategica dell’Europa segna un passaggio di livello senza precedenti.

 

Eppure, come confortato dalle parole della stessa Corte di giustizia, in un giudizio del 2013 su ricorso di Spagna e Italia, la cooperazione rafforzata è assolutamente legittima se si riscontra l’impossibilità di adottare decisioni nel futuro prossimo (“in the foreseeable future”). Tutt’al più che, da un punto di vista della procedura, occorre promuovere, anche dopo l’attivazione della cooperazione, la partecipazione di più stati membri possibili.
Questo repentino cambio di rotta non dovrebbe dunque restare confinato alle contingenze storiche, ma potrebbe diventare replicabile, in quanto svolta di segno positivo: pur potendo suscitare le riserve dei puristi del diritto, esso consente all’Unione di affrontare con realismo politico, e senza infingimenti, le proprie sfide. 

 

Questo non vuol dire che si distruggerà ogni spinta federalista: ricordiamoci, ancora una volta di Jean Monnet. Anche perché un meccanismo simile esiste pure in uno stato a noi molto noto: negli Stati Uniti, la Costituzione prevede la c.d. compact clause, in base alla quale solo alcuni stati possono portare avanti, con una certa flessibilità, azioni coordinate, subordinatamente ad un’autorizzazione del Congresso federale. Che siano deroghe, eccezioni o semplicemente Stati riluttanti che restano indietro, possiamo e dobbiamo avvalerci anche noi della cooperazione rafforzata, accettare le geometrie variabili, per permettere i prossimi sviluppi dell’Unione, come l’attuazione del Piano Draghi e del Piano Letta. La decisione presa all’alba del 19 dicembre potrebbe, quindi, facilitare il raggiungimento del consenso su molte delle raccomandazioni contenute nei rapporti di Draghi e Letta. 

 

In questa prospettiva, la “cooperazione rafforzata” dovrebbe essere pensata non come una procedura in cui gli stati recalcitranti vengono lasciati indietro, senza “sanare” i motivi del dissenso. Al contrario, si può evitare che tale istituto diventi, come temono alcuni, uno strumento di disgregazione sistematica dell’ordinamento unionale, facendo in modo che sia attivabile principalmente qualora produca esternalità positive anche per gli stati membri non partecipanti, liberi di aggregarsi anche in un secondo momento. Ma c’è di più, perché non pensare a una cooperazione “+1” o “+2”, che si proietti verso l’esterno mediante accordi selettivi con stati terzi strategici (penso al Regno Unito o al Canada)? Ecco, allora, la novità. Per superare i veti, l’Europa è costretta a differenziarsi, ad andare oltre sé stessa. Questo è vero, per esempio, in un altro settore attualmente in fase di stallo: l’allargamento. 

 

Sappiamo, infatti, che si sta valutando l’idea di ammettere i futuri nuovi membri senza il pieno diritto di veto nelle decisioni del Consiglio, quantomeno in una fase iniziale dell’adesione. Questo servirebbe ad accelerare l’ingresso di Ucraina e Moldova ma anche, perché no, di un paese alleato dell’Italia, l’Albania di Rama.

 

Letta alla luce dell’insegnamento di Jean Monnet, quella che potrebbe essere etichettata come una “notte dei giochi non cooperativi” assume una fisionomia diversa. Non tanto una deviazione patologica del processo decisionale europeo, quanto piuttosto una delle sue modalità storiche di avanzamento. 

 

Viene in mente, allora, un certo parallelismo con i Conclavi. Anche lì, dietro le porte chiuse, si consumano trattative dure, talvolta spietate fra i cardinali, motivate da egoismi, ambizioni, interessi, conflitti geopolitici e di potere; eppure, l’elezione del nuovo papa – è opinione comune – sarebbe guidata dallo Spirito Santo sino alla scelta della personalità più adeguata. Allo stesso modo, nell’Unione, si sta delineando un processo di trasformazione che si compie attraverso le crisi, non malgrado la crisi.

 

Se vi sia uno “spirito” che anima anche i corridoi dell’Europa Building non è dato sapere. Ma forse si può intravvedere l’emersione di un principio ordinatore inedito. Se l’Europa del futuro prossimo sarà un’Europa delle geometrie variabili, delle responsabilità differenziate e dei nuovi stati membri senza diritto di veto, allora quest’ultimo Consiglio del 2025 dovrà essere ricordato come un vero e proprio momento fondativo. Non il trionfo della virtù, ma un esito inaspettato prodotto dell’equilibrio tra opportunismi e compromessi, tra cooperazione e non cooperazione.

 

E’ proprio qui che continua a risiedere, nel bene e nel male, il “miracolo” europeo. Ritorniamo dunque a Jean Monnet e alla costruzione dell’Europa attraverso le crisi, ma con un corollario: nella storia dell’Unione, quasi sempre la soluzione è venuta dall’Italia. Questa volta, dal combinato disposto dei Piani Draghi e Letta, sotto la regia intelligente e coraggiosa dell’Italia di Giorgia Meloni.

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