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Foggy Bottom in pena

Ondata di epurazioni per gli ambasciatori degli Stati Uniti. La stretta di Trump sul dipartimento di Stato

Vincenzo Camporini

Una trentina di richiami senza alcuna motivazione di dettaglio: implicitamente è un atto di sfiducia nei confronti del mondo diplomatico. Ma anche verso Marco Rubio, sistematicamente e regolarmente marginalizzato

E’ di questi giorni la notizia che un certo numero, circa una trentina, di ambasciatori degli Stati Uniti ha ricevuto una telefonata da Washington, con cui veniva comunicata la fine del mandato, con l’ordine di rientrare in patria entro il mese di gennaio, uno sfratto esecutivo in piena regola. Nel sistema americano solo una parte delle sedi è occupata da diplomatici di carriera, mentre quelle più significative vengono consuetudinariamente affidate a personalità estranee, che hanno ben meritato agli occhi del presidente in carica, anche per cospicui finanziamenti effettuati a favore della sua campagna elettorale. Ovviamente in queste sedi l’ambasciatore titolare è affiancato da esperto personale diplomatico, in grado di supportarlo adeguatamente sia dal punto di vista tecnico che da quello formale, che in questa particolare forma di attività e in questo ambiente riveste un’importanza cruciale. E’ questo il caso dei paesi considerati più rilevanti o, per dirlo con un po’ di malizia, quello delle capitali più “appetibili”.

Le procedure per le nomine sono abbastanza macchinose e non stupisce che in questo momento un quarto delle ambasciate Usa, che sono 195, risulti privo del titolare. Anche per Roma ci sono stati lunghi periodi di vacanza, con il caso emblematico durato dal gennaio del 2021 al settembre 2023, ben due anni e otto mesi in cui la rappresentanza americana era garantita da un incaricato d’affari.

Nel resto del mondo operano in prima persona funzionari del dipartimento di Stato, cioè il ministero degli Esteri, guidati dalle loro competenze professionali, nel rispetto delle direttive che arrivano da Washington tramite Foggy Bottom, come viene usualmente chiamato il dipartimento di Stato, dal quartiere urbano in cui è insediato. Ovviamente è proprio verso queste sedi che si è indirizzata la campagna di epurazioni cui stiamo assistendo: in generale si tratta di paesi non di primissimo piano, ma scorrendo l’elenco di quelli coinvolti, alcuni nomi balzano agli occhi, come ad esempio l’Algeria, l’Egitto, le Filippine, il Viet Nam, paesi che rivestono un’importanza strategica indubitabile, per il quadrante mediorientale o per quello dell’Indo-Pacifico, da decenni indicato come assolutamente prioritario (si ricordi il “pivot to Asia” proclamato da Obama).

Per questa ondata di richiami non è stata fornita alcuna motivazione di dettaglio se non una spiegazione a carattere generico, ma indicativa, sottolineando che gli ambasciatori sono indicati a discrezione del Presidente e devono promuovere le sue priorità. Il che implicitamente è un atto di sfiducia nei confronti del mondo diplomatico e del dipartimento di Stato nel suo complesso, a partire dal suo titolare, quel Marco Rubio che nel 2016 osò sfidare Trump alle primarie per la candidatura alla presidenza. Questi fatti non dovrebbero sorprendere più di tanto, ma possono essere comunque indicativi delle personali fortune politiche, soprattutto nel quadro delle attuali vicende internazionali. In buona sostanza Rubio vene sistematicamente e regolarmente marginalizzato: questo avviene per la crisi mediorientale, così come per le trattative per la soluzione del conflitto scatenato dalla Russia contro l’Ucraina: la comparsa sulla scena di Steve Witkoff, l’immobiliarista improvvisamente assurto a negoziatore plenipotenziario sia per Gaza che per l’Ucraina, ora accompagnato da Jared Kushner, il genero del Presidente, ha di fatto esautorato il dipartimento di Stato e quindi il suo capo dal ruolo che gli è istituzionalmente proprio. I risultati sono sotto gli occhi di tutti, anche senza fare illazioni, che peraltro appaiono ben sostanziate, sulle personali simpatie nutrite da Witkoff verso Putin e le sue pretese: documenti pasticciati e imprecisi, come la famosa bozza di intesa in 28 punti, in cui argomentazioni di natura politica e strategica sono mescolate a ipotesi di accordi di affari, con l’indicazione di precise percentuali di profitto, documenti di cui Rubio appare tenuto quasi all’oscuro fino alla loro pubblicazione.

Vediamo dunque il convergere di due linee politiche distinte ma non indipendenti. La determinazione a mettere sotto un controllo ferreo del Presidente tutte le strutture portanti delle istituzioni americane: è accaduto con il Pentagono e con il dipartimento della Giustizia e sta accadendo per il dipartimento di Stato. La seconda direttrice è quella di preparare il futuro sviluppo della lotta politica per le elezioni del 2028, appuntamento che può apparire lontano, ma con una campagna elettorale di cui già vedremo i primi atti nel prossimo anno.

 

 

Vincenzo Camporini, ex capo di stato maggiore della Difesa

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