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Negli Stati Uniti

Dall'Heritage ad American Freedom, la battaglia culturale nella destra si fa dentro i think tank

Andrea Venanzoni

Dopo aver rassegnato le proprie dimissioni dal gruppo guidato da Kevin Roberts, la maggior parte degli ex componenti entra in un istituto giovanissimo con l'intento di unificare i conservatori, ma anche porre dei paletti, innanzitutto definendo chi sia un conservatore

La Heritage Foundation perde, copiosamente, pezzi. Secondo quanto riporta il Wall Street Journal, ad abbandonare il think tank guidato da Kevin Roberts sono interi dipartimenti. Quindici componenti, tra cui l’intero staff legale, avrebbero rassegnato le proprie dimissioni in aperta polemica con la postura assunta dall’istituto e la gestione sempre più nazional-populista patrocinata da Roberts. La proverbiale goccia che ha fatto traboccare il vaso è, ancora oggi, la mancata presa di distanza da Tucker Carlson, dopo che questi ha dato ospitalità allo streamer estremista Nick Fuentes. Ma con il passare del tempo, il sasso si è trasformato in una valanga, perché né Carlson né, prevedibilmente, Fuentes hanno ammorbidito i toni. E lo scontro, da periferico e digitale, è risalito fino al cuore dell’amministrazione Trump, coinvolgendo la figura del vicepresidente J. D. Vance.

Un aspetto in particolare merita di essere sottolineato: questa volta, i dimissionari non sono rimasti orfani in termini di adesione a una qualche struttura. La maggior parte degli ex componenti della Heritage ha aderito ad Advancing American Freedom, associazione no profit che si sta strutturando al pari di un think tank e che fa capo politicamente all’ex vicepresidente degli Stati Uniti Mike Pence. Per quanto la stella politica di Pence, referente principe di un Gop istituzionale e per nulla populista, da sempre ai ferri corti con l’egemonia Maga, non scaldi più di tanto i cuori, l’operazione appare qualcosa di molto più ampio, articolato e complesso. Advancing American Freedom è un istituto giovanissimo, fondato nel 2021 e con sede a Indianapolis. Per lungo tempo rimasto silente e con scarsa attività, sembra essere nei fatti divenuto uno splinter group della stessa Heritage, o meglio di ciò che la Heritage era prima dell’avvento di Roberts. Come ha sottolineato il conduttore radiofonico cattolico Erick Erickson, il paradosso della Heritage è quello di aver visto trionfare sì un’agenda politica di puro conservatorismo sociale, a discapito del conservatorismo economico e fiscale, ma in un contesto governativo che appare distante da veri valori pro life. Non si dovrebbe mai dimenticare come una vasta parte della destra religiosa e del fronte pro life, che pure hanno sostenuto Trump, lo abbiano fatto con diversi mal di pancia. E molte scelte, sul fronte sanitario e morale, vedasi gli sviluppi incresciosi del caso Epstein, stanno alienando simpatie.

Il punto di forza della Heritage era stato storicamente l’aver propiziato un fusionismo tra anime conservatrici sovente in lotta tra loro, in una delicata operazione di bilanciamento. Il Presidente di American Freedom, Tim Chapman, non per caso sottolinea come la vera necessità politica del momento sia quella di unificare le varie anime del conservatorismo, non dimenticando anche un approccio pro market che la Heritage sembra aver smarrito e senza far tirannicamente prevalere un’anima sulle altre. Si badi, questa unificazione non equivale alla sostanza del motto “nessun nemico a destra” tanto in apparenza caro a J. D. Vance. Perché tutti i transfughi dalla Heritage vogliono certamente unificare i conservatori, ma vogliono anche porre dei paletti, innanzitutto definendo chi sia un conservatore. Questione di valori morali, sottolineano. Non si può condividere la piattaforma politica con antisemiti, estimatori di Adolf Hitler o dell’islamismo radicale e con chiunque mantenga un contegno ambiguo nei confronti delle prima citate categorie.

Altro aspetto di grande interesse è il tempismo di queste dimissioni di massa. Arrivano infatti all’indomani del potente e vibrante discorso accusatorio tenuto da Ben Shapiro dal palco di Turning Point Usa, l’organizzazione fondata da Charlie Kirk. Shapiro, con toni da William Buckley, ha detto senza fronzoli come sia impossibile considerare al pari di compagni di viaggio soggetti che odiano l’ebraismo e che guardano con favore paesi, dal Venezuela all’Iran e alla Russia, storici nemici degli Stati Uniti. Argomentazioni, come pure quelle a favore dell’Ucraina, care ad altri think tank della destra americana, a partire dal prestigioso Hudson Institute. Zineb Riboua e Rebeccah Heinrichs, analiste dell’istituto, avvertono da tempo sui pericoli di una deriva terzomondista dell’universo America First. Giova ricordare come ad aprile 2024, nella sede dell’Hudson, proprio Mike Pence abbia tenuto un discorso sull’importanza delle relazioni tra Stati Uniti e Israele, viste come fumo negli occhi dalla destra populista caldeggiata dal nuovo corso della Heritage. J. D. Vance, nel mezzo, rischia di rimanere travolto.