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LA MANCANZA DI UNA DESTINAZIONE FINALE

Povera Europa, rassegnata all'idea che l'intera Storia sia già stata percorsa

Michele Silenzi

Il tratto caratteristico dell'uomo europeo odierno è la mancanza di intensità di vita, intesa come mancanza di intesnità spirituale.E allora si agita, cerca di farsi vedere, di essere il protagonista che non è. Questa sua danza goffa e fragile rappresenti al meglio il proprio ruolo in questo momento

Le trattative di pace si fanno più intense. Ma, qualsiasi cosa succederà, il mondo non ritornerà “quello che era prima”. L’entità del mutamento storico in essere è difficilmente articolabile, ma il mutamento, prima di essere della storia è degli uomini. La Storia, scritta così, con la maiuscola, non è un’entità autonoma e di per sé creatrice. Sappiamo infatti che se vi è qualcosa di creato dall’uomo, se vi è un prodotto delle azioni degli uomini, questo è precisamente la storia. Quindi, i grandi mutamenti avvengono, in maniera più o meno cosciente, negli uomini, ovvero nelle loro interazioni e articolazioni individuali. E tali cambiamenti si concretizzano, si attuano e diventano pienamente visibili nella storia. Si può anche dire che questa conversione storica, questi mutamenti, non sono frutto dell’uomo in generale, che nessuno conosce né ha mai visto, ma di tradizioni culturali a cui gli uomini appartengono per discendenza ed eredità. Per quello che riguarda l’uomo europeo, che non è una categoria scientifica ma è un qualcosa di molto più effettuale dell’astrazione burocratica chiamata Unione europea, quello che sembra il suo tratto caratteristico in questo momento è una mancanza di intensità di vita, intesa come mancanza di intensità spirituale. Cerco di spiegarmi. Per intensità spirituale non intendo nulla di astratto, ma la forza vivificante che sta dentro l’esistenza stessa, quella forza che la spinge a espandersi e potenziarsi, che spinge la vita a “uscire da se stessa”, a manifestarsi con forza chiara e indiscutibile.

Senza questa “intensità spirituale”, che è la componente espansiva della vita, la vita tende un po’ a collassare su se stessa, a ripiegarsi. E questo non è un fenomeno neutro ma genera un’angoscia silenziosa e pervasiva, una sorta di flebile afflizione costante: una consunzione e non un’esplosione. Non è, per intenderci, l’angoscia rappresentata dall’Urlo di Munch che preannuncia gli orrori dei successivi cinquanta anni. Non si tratta di questo. La mancanza di intensità spirituale, piuttosto, corrisponde a una vilificazione dell’esistenza, un po’ sfinita pur in mezzo al glittering della nostra meravigliosa Europa. Che appare sempre più impotente, con tutta la ricchezza semantica che questo termine porta con sé: primo tra tutti assenza di speranza nel futuro. Cos’è la potenza, infatti, se non un potenziale di realizzazione, se non la possibilità stessa di attuarsi? E come è rappresentato il re pescatore della terra desolata di Eliot se non come un impotente?

Noi europei siamo probabilmente “i migliori”, se con questo s’intende quell’impasto di attivismo, buone intenzioni, volontà di conciliare le parti in rivolta, di fare la faccia feroce ma non perché davvero feroce bensì solo perché forse funzionale alla pacificazione generalizzata. A parte il fatto che questa modestia della forza rappresenta una massima inefficacia politica, qualcosa d’altro sembra qui interessante. Una percezione più radicale della nostra realtà. In un film di qualche anno fa, “Pawn sacrifice”, viene raccontata la parabola del genio americano degli scacchi Bobby Fischer che, prima di perdersi nella brumosa notte della sua mente, gioca quello che è forse il più leggendario match della storia degli scacchi: la sfida per il titolo mondiale contro il formidabile campione sovietico Boris Spassky. Alla fine della vicenda, Fischer vince in maniera trionfale, in una Islanda allucinata dalle sue notti bianche nella livida estate del 1972. Dopo la vittoria, Bobby Fischer è seduto nel tinello della sua casa con una scacchiera davanti. E’ famoso praticamente come i Beatles, gli scacchi all’epoca erano una componente significativa dei grandi movimenti della Guerra fredda. Non riesce a dormire. L’amico sacerdote che lo accompagnava e un po’ lo allenava lo raggiunge, gli si siede accanto. Fischer parla e gli dice che tutti pensano che negli scacchi ci siano molte possibili mosse ma che in realtà, ogni volta, c’è solo una mossa davvero giusta. Ma neanche questa “mossa giusta” ha davvero significato perché, alla fine, non c’è davvero nessun posto in cui andare.

Questo sembra il sentimento profondo dell’epoca europea, una sintesi della sua assenza di intensità spirituale, della sua mancanza di destinazione, dell’assenza di una promessa, della sua impotenza. Come se ogni cosa fosse già saputa, come se l’intero corso della storia fosse già stato percorso e ci mostrasse che non può condurre a niente di meglio di quello che siamo noi. E che alla fine, anche questo meglio, non è così soddisfacente perché, in fin dei conti, non c’è nessuno posto in cui andare. Perché senza la promessa di una potenzialità da realizzare, di un nuovo da determinare, di una speranza reale e non autoindotta, si scivola inevitabilmente nell’impotenza. L’europeo, che si mostra realmente in questa epoca come una categoria esistenziale, appare però incapace di affrontare questo stallo assoluto della propria parabola storica, di abbracciarlo. E allora si agita, cerca di farsi vedere, di essere il protagonista che non è, di praticare una potenza che però rivela la tragica impotenza di chi è fuori tempo, fuori ritmo, rispetto al corso della storia. Si potrebbe allora pensare che questa sua danza goffa e fragile rappresenti al meglio il proprio ruolo in questo momento.

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