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Il mistero di Mindanao, che ha addestrato i terroristi di Bondi Beach
Dalle rotte dei pirati del Mar di Sulu ai campi di addestramento jihadisti: nelle shadowlands del Sud-est asiatico si intrecciano terrorismo globale, traffici illegali e una guerra mai davvero finita
Bangkok. “Da queste parti hanno girato ‘Apocalypse Now’”, mi aveva detto un ufficiale delle Forze speciali filippine mentre giocherellava col bolo, il machete che ogni soldato personalizza decorando l’impugnatura. “Qui?”. “Qui nelle isole”. Risposta vaga, considerando che le Filippine sono più di settemila isole. Nell’interno di qualche isola da queste parti, mi precisò, “abbiamo qualche problema”.
Il qui di allora è il sud dell’isola di Mindanao, al margine orientale del Mar di Sulu, dove si concentra la maggioranza dei gruppi musulmani delle cattolicissime Filippine. E’ lì che si sarebbero addestrati per circa un mese Sajid e Naveed Akram, gli autori della strage di Bondi Beach, una delle più famose d’Australia. Siamo in una delle Shadowlands, i cuori di tenebra del sud-est asiatico.
Sin dal XIV secolo, con la diffusione dell’islam in quell’area, le acque del Mar di Sulu sono uno dei covi dei pirati dei mari orientali. Quei pirati e cacciatori di teste, che assalivano le navi fingendosi pellegrini di ritorno dalla Mecca, risalivano i fiumi e saccheggiavano i villaggi, catturando gli abitanti per rivenderli come schiavi, sono gli antenati dei trafficanti, dei signori della guerra, dei pirati, dei ribelli indigeni, dei criminali reincarnati in miliziani che vogliono creare un wilaya, uno stato islamico nel sud-est asiatico. Le stesse rotte nell’immenso arcipelago tra lo Stretto di Malacca, il Borneo e il Mar cinese meridionale, un tempo battute dai pirati, oggi sono seguite dai trafficanti del terrorismo transnazionale e dagli jihadisti. Sono quelle dove, tra le mille insenature e le foci dei fiumi sulle coste del Borneo, si cambiano nome e bandiera alle navi sequestrate dai pirati per imbarcare droga o armi. E sono quelle in cui si mimetizzano e sfuggono a ogni controllo i mercantili della ghost fleet che trasportano in Russia e Corea del nord le merci sottoposte a embargo.
In quelle acque passano ogni anno oltre centomila navi che trasportano 55 milioni di tonnellate di merci e 18 milioni di passeggeri. Senza contare le migliaia e migliaia di barche da pesca e di pinisi, le tradizionali barche da carico indonesiane dalla prua a scimitarra, che ancora navigano tra le isole sfuggendo a ogni controllo. E’ anche per questo che il costo delle armi è più basso nel sud delle Filippine rispetto all’Indonesia. Seguendo le stesse rotte è sbarcata a Mindanao, in veste di migranti o pescatori, una legione di foreign fighters provenienti da medio oriente, Indonesia, Malaysia, Cecenia, Singapore, Bangladesh, Turchia, Yemen, Marocco e India, il paese d’origine, a quanto sembra, degli Akram.
Ed è nell’isola di Mindanao, nella provincia di Lanao del Sur e nella sua capitale Marawi, che si è svolta una delle più feroci battaglie tra l’esercito filippino e i gruppi jihadisti affiliati allo Stato islamico. La battaglia era iniziata il 23 maggio del 2017 e si era conclusa dopo quasi due mesi di combattimenti con un bilancio di morti ancora ignoto. “Marawi deve servire da sveglia non solo al governo filippino, ma a tutti i governi dell’Asia”, aveva dichiarato Phill Hynes della Intelligence Security Solutions (Iss), società di Hong Kong che analizza rischi politici e terrorismo. All’epoca comandante in capo delle Filippine era il presidente Rodrigo Duterte, l’uomo forte del paese che conosceva bene Mindanao perché era stato sindaco della città di Davao, la capitale de facto dell’isola, per oltre ventidue anni, ricoprendo diversi mandati. Poi nel 2016 Duterte era stato eletto presidente delle Filippine, aveva portato avanti la sua guerra alla droga senza scrupoli, applicando il modello Davao su scala nazionale e usando la minaccia del terrorismo islamico anche per reprimere le opposizioni. A marzo di quest’anno Duterte si è arreso a un mandato d’arresto della Corte penale internazionale, ma qualche mese dopo è stato comunque rieletto sindaco di Davao in contumacia. A reggere l’amministrazione della città è il vicesindaco nonché suo figlio, Sebastian Duterte. Intanto l’attuale governo filippino cerca di minimizzare, e il presidente Ferdinand Marcos “respinge con forza l’affermazione generalizzante e la rappresentazione fuorviante delle Filippine come un centro di addestramento dell’Isis”, ha detto ieri la portavoce Claire Castro durante una conferenza stampa.
Ci conviene essere maialini coraggiosi