da foto Ansa
Editoriale del direttore
L'uomo dell'anno è Ahmed al-Ahmad, l'eroe di Sydney che ha disarmato la furia antisemita
Ieri a Bondi Beach si è gettato addosso a uno degli attentatori, lo ha disarmato e ha evitato che la strage avesse un bilancio ancora più pesante. Riconoscere l’ideologia del terrore si può. Basta solo volerlo. Appello
Si chiama Ahmed al-Ahmad, ha quarantatré anni, è musulmano (così sembra dalle prime ricostruzioni), è padre di due figli, gestisce un negozio di frutta a Sutherland, in Australia, e ieri, a sangue freddo, in una frazione di secondo, mentre due uomini stavano compiendo una strage a Sydney durante una delle feste ebraiche più importanti, Hanukkah, la festa delle luci, ha fatto uno scatto, si è gettato addosso a uno degli attentatori, lo ha placcato, lo ha fermato, lo ha disarmato e ha evitato che la strage, la più grave mai registrata in Australia dopo il massacro di Port Arthur, nel 1996, potesse presentare un conto ancora più grave di quello registrato ieri: dodici morti, ventinove feriti. Inutile girarci attorno. Ahmed al-Ahmad – le immagini le abbiamo viste tutti, sono incredibili, la storia sembra troppo bella per essere vera ma al momento è lì di fronte a noi e dunque vale la pena godercela – è il vero uomo dell’anno e in quel gesto dirompente ed eroico ha mostrato al mondo intero una lezione ineludibile: fare tutto il necessario per disarmare un mostro che sta nuovamente rosicchiando la nostra libertà. Il mostro del terrore. Il mostro dell’odio. Il mostro dell’antisemitismo.
Ahmed al-Ahmad, evidentemente, non sapeva contro chi stava sparando il terrorista, non sapeva perché lo stava facendo, non sapeva qual era l’ideologia genocidiaria che aveva armato i terroristi. Ma il suo scatto è lo specchio perfetto di un mondo che esiste ma che fatica a mostrarsi con forza. Un mondo desideroso di fare tutto ciò che è necessario per combattere l’intifada globale, per fermare l’odio antiebraico, per disarmare l’antisemitismo. Sarebbe bello e persino consolatorio osservare con fare distratto la tragedia australiana come se fosse un fatto lontano, remoto, frutto della violenza di un singolo e non di un odio che ha radici profonde e drammaticamente trasversali. Negli ultimi mesi, nonostante l’indifferenza mediatica, l’antisemitismo si è manifestato in modo concreto e violento in numerosi paesi. A Manchester, tra ottobre e novembre, studenti ebrei sono stati minacciati e circondati in un campus universitario, con cori contro Israele degenerati in insulti antiebraici, e una sinagoga è stata posta sotto protezione dopo intimidazioni ripetute. In Francia, a Parigi e Marsiglia, diverse sinagoghe e scuole ebraiche sono state imbrattate con svastiche e scritte inneggianti a Hamas. A Lione un rabbino è stato aggredito verbalmente e seguito per strada. In Germania, a Berlino e Amburgo, sono stati incendiati simboli ebraici e vandalizzati memoriali della Shoah. Negli Stati Uniti, a New York e Los Angeles, centri comunitari ebraici hanno ricevuto minacce di attentati e studenti ebrei sono stati aggrediti durante manifestazioni universitarie. In Canada, a Montreal e Toronto, cimiteri ebraici sono stati profanati e sinagoghe colpite da incendi dolosi. In Australia, prima di Sydney, si sono registrate aggressioni fisiche a Melbourne e scritte antisemite sui luoghi di culto.
Episodi diversi, stesso filo: l’odio antiebraico che torna pubblico e che diviene normalizzato, con i luoghi di culto ebraici che diventano bersagli, con i simboli della fede che tornano a essere proibiti, con gli ebrei che in tutto il mondo tornano a essere colpevoli di essere ebrei (i governanti australiani, detto tra parentesi, erano così preoccupati della furia antiebraica, preoccupati cioè di fare qualcosa che potesse eccitare gli odiatori degli ebrei, da essersi astenuti dal recarsi sul luogo del massacro del 7 ottobre, con il ministro degli Esteri, durante una visita ufficiale in Israele, e anche ieri il primo ministro australiano, Anthony Albanese, nel suo primo comunicato a seguito della strage terroristica di Bondi, non ha mai nominato la parola ebrei).
Possiamo scegliere di chiudere gli occhi, facendo finta che non sia successo nulla, facendo finta che l’antisemitismo sia una reazione, facendo finta che l’antisionismo sia pacifico, facendo finta che l’intifada globale sia un movimento legittimo di difesa di un popolo oppresso, facendo finta che l’odio antiebraico sia legato alla guerra in medio oriente. Possiamo far finta, come detto pochi giorni fa anche da Rachel Reeves, cancelliere dello Scacchiere inglese, di sinistra, che non ci sia un antisemitismo strutturale quando si strappano le foto dei bambini rapiti da Hamas, quando si grida morte all’Idf, quando si equiparano le azioni di Israele a coloro che hanno assassinato sei milioni di ebrei, quando si diffondono oscure cospirazioni sul presunto potere della “lobby sionista”, quando si alimentano le tensioni nella comunità per impedire ai tifosi di calcio israeliani di recarsi in una città inglese, quando si pretende che musicisti, media e artisti ebrei si impegnino in una sorta di denuncia performativa di Israele prima ancora che venga loro concesso di esibirsi, quando si trasformano i collettivi studenteschi in portavoce espliciti del verbo delle guide supreme iraniane. Possiamo far finta, come leggeremo anche oggi, che l’antisemitismo violento sia sempre veicolato da qualche pazzo, da qualche scheggia impazzita, da qualche individuo fuori di testa ostaggio di una qualche paturnia personale, senza matrice, senza radice. Possiamo fingere tutto questo o possiamo finalmente aprire gli occhi e riconoscere che le ondate violente di antisemitismo che stanno travolgendo il mondo trovano terreno fertile nella demonizzazione quotidiana del popolo ebraico, nell’indifferenza generale di fronte alle parole dell’orrore che hanno contribuito a trasformare in innocue espressioni virali concetti genocidiari come la cancellazione di Israele dal fiume al mare.
La tragedia australiana ci ricorda, come abbiamo avuto modo di scrivere un’infinità di volte in questi mesi, che l’antisemitismo che si è alimentato in giro per il mondo dopo il 7 ottobre non è stato causato dalla guerra difensiva di Israele. E’ stato causato dal suo esatto opposto: dall’odio latente che vi è in giro per il mondo contro gli ebrei, e contro Israele, e dalla simpatia di fondo che vi è, in alcuni contesti internazionali, per tutti coloro che considerano, a prescindere dal 7 ottobre, gli ebrei colpevoli in quanto ebrei. L’antisemitismo non nasce come reazione, nasce come azione, nasce come ideologia. Ed è quando si inizia a pensare che sia motivato da qualcosa che bisogna ricordarsi di avere buona memoria, come ricorda sempre con saggezza Liliana Segre, e come ricorda oggi sul nostro giornale suo figlio, Luciano Belli Paci. Ha scritto ieri lo Spectator, formidabile testata conservatrice inglese, commentando la strage terroristica di Sydney, che una società che si rifiuta di nominare l’odio quando si manifesta non dovrebbe sorprendersi quando quell’odio alla fine si manifesta.
Disarmare il terrorismo, non solo quello antisemita ma anche quello putiniano, se volessimo essere precisi, è il manifesto di un mondo che sceglie di riprendersi le sue libertà, e dovrebbe essere abbracciato dalla politica tutta, a destra, al centro, a sinistra, e non solo a titolo personale come direbbe qualche autorevole esponente progressista. Viva Ahmed al-Ahmad, person of the year di un mondo che sogna di disarmare il terrore antisemita e simbolo dei piccoli e grandi gesti di coraggio che senza retorica possono cambiare le nostre vite.
L'editoriale dell'Elefantino