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L'editoriale dell'Elefantino

Il gran ritorno di Bush, da spauracchio dei liberal a loro testimonial

Giuliano Ferrara

Finché reggono le istituzioni, non tutto è perduto. Il superliberal  Friedman cita oggi quello che era il mostro repellente della coscienza democratica mondiale a testimone della decenza politica e civile nell’America stravolta dal trumpismo Maga. Ben scavato, vecchia talpa

Ognuno si stringe alle sue esperienze personali e alla sua natura di animale storico, nell’epoca di quello che Tom Friedman chiama il Policene, il polimorfismo di un mondo forgiato da Intelligenza Artificiale e connettività universale. Ora David Brooks ha ripercorso sull’Atlantic la parabola dei neoconservatori e ha sostenuto che della loro cultura, della loro politica e del loro statuto morale, a lungo considerati una cloaca reazionaria e bellicista, ci sarebbe bisogno oggi, nella tormentata America di Trump. Brooks è alla lontana e direi come “ipotesi per assurdo” un erede del fondatore della destra intellettuale americana William F. Buckley, salvo il fatto che Sam Tanenhaus, biografo di Buckley, ha raccontato un pezzo del suo testamento spirituale, non proprio encomiabile o fair: “Brooks sarebbe il mio successore, se non fosse ebreo”. (segue a pagina quattro)
 

Brooks è da anni al New York Times, dove Gail Collins, già celebre capo delle pagine dei commenti, lo assunse come erede di William Safire, grande columnist conservatore. Brooks è a sua volta un conservatore che sa come pensano e sentono i progressisti, un uomo di centrodestra molto rispettato da quelli di centrosinistra. Brooks idolatra Isaiah Berlin, teorico insigne del moderno liberalismo che, come Brooks ricorda, si considerava la destra della sinistra (posizione difficile, piuttosto scomoda, alcuni miei amici ed io ne sappiamo qualcosa). Bene, sono storie di cultura e di idee internazionali con cui non è bene tediare i lettori, storie partite dagli Stati Uniti e passate per generazioni, che si intrecciano con tante cose diverse, dalla filosofia politica di Leo Strauss, su cui il celebratissimo Peter Thiel, padrino di Vance, ha scritto un libretto vanesio in cui non si capisce una sola parola, alla presidenza di George Bush, quello che intraprese una crociata mondiale della libertà dopo l’11 settembre per cambiare la mappa del mondo autocratico con la forza imperiale dell’America e dei suoi alleati europei, esportando la democrazia e costruendo nuove nazioni (cioè l’opposto della National Security Strategy di J. D. Vance e Donald Trump). 

Eccoci al punto, politico e notizioso, che ci consente un giudizio spassionato sulla destra intellettuale e politica che non si intruppa con il movimento populista. Ricorderete la fama di perdente, di cattivo perdente, di illuso, di imbecille, di peggior presidente della storia americana, che Bush Jr. si procurò nelle élite liberal mondiali, politica e stampa e show business e satira, per aver combattuto, con Cheney e Rumsfeld, quella che i suoi sostenitori consideravano la buona e ultima battaglia prima della mezza apocalisse di oggi, l’alleanza di democrazie incanaglite e autocrazie blindate. Ricorderete la sequela di giudizi sommari, congiunti a insulti innominabili e a denigrazioni trasversali, che colpirono la prima amministrazione americana sfidata e contrastata apertamente da Parigi e da Berlino, con Chirac e Schroeder dall’altra parte della barricata nella guerra irachena.  Bene, ora il superliberal Tom Friedman cita George Bush a testimone della decenza politica e civile nell’America stravolta dal trumpismo Maga. Confida a Brooks, in un bel colloquio a due sul New York Times, che vorrebbe tutti i giorni al mattino sedersi e scrivere che non ce la faremo, che altri tre anni di trattamento trumpiano del paese sono insostenibili, ma è trattenuto da questo giudizio di Bush, il famoso Dubya, W., il mostro repellente della coscienza democratica mondiale. Dice Bush, citato da Friedman come elder statesman: finché reggono le istituzioni, le corti, l’Fbi, il meraviglioso stato denigrato come deep state, finché regge un minimo di bilanciamento dei poteri, non tutto è perduto. Da spauracchio dei progressisti a loro testimonial. Ben scavato, vecchia talpa.

  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.