Ansa
basta un accordo
La pace perversa di Trump
Il presidente americano si autoproclama pacificatore globale, ripete l’elenco delle guerre finite, sacrifica gli aggrediti in nome di una foto o di una firma. Dietro alle sue “paci storiche” ci sono nuove guerre
Negli ultimi nove mesi, scrive Donald Trump nel testo introduttivo del documento sulla Strategia di sicurezza nazionale, abbiamo salvato l’America e il mondo “dalla catastrofe e dal disastro”, e dopo quattro anni di debolezza ed estremismo “il mio governo si è mosso con urgenza e con una velocità dalle proporzioni storiche per restaurare la forza dell’America in casa e all’estero e per portare pace e stabilità nel mondo”. La pace nel mondo è il mantra preferito del presidente americano, e lui naturalmente è il più potente agente di pace esistente: se lo dice da solo, glielo dicono i suoi ministri, qualche giorno fa il presidente della Fifa, Gianni Infantino, gli ha messo una medaglia al collo, il primo premio per la pace della Federazione internazionale di calcio, che lei si merita, presidente, ha detto Infantino, “per quel che ha ottenuto con i suoi metodi”, “metodi incredibili”. Trump era orgoglioso, ha preso questo riconoscimento come il Nobel per la Pace che l’Accademia norvegese gli ha negato (lo ha dato a María Corina Machado, ieri c’è stata la cerimonia di premiazione senza di lei, che deve muoversi con cautela perché è minacciata di morte dal regime venezuelano), nonostante i tanti appelli in tutto il mondo. Anche il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, aveva dichiarato che Trump se lo meritava, quel Nobel, in un tentativo estremo di credere davvero alla possibilità di portare la pace nel suo paese aggredito ingiustamente dalla Russia di Vladimir Putin. L’Ucraina è la sintesi di quel che intende Trump per pace: un accordo purchessia, noncurante della distinzione tra aggressore e aggredito, il lampo di una firma o di una foto, e poi se riscoppia la guerra, non è un problema del presidente americano, lui la pace l’aveva fatta. E l’Ucraina è anche la sintesi dell’incoscienza trumpiana: il presidente americano diceva che in 24 ore avrebbe fatto la pace, poi tre giorni, poi siamo ancora qui, ma intanto la colpa della non-pace non è certo di Trump ma non è nemmeno di Putin, che potrebbe farla in questo preciso istante, la pace, smettendo di bombardare gli ucraini, ma non la fa, non la vuole: la colpa ora è di Zelensky.
Trump e i trumpiani trascinano questo equivoco della pace svuotata di valori e realtà, e gli Infantino di tutto il mondo – sono tanti – li seguono. Nel documento strategico che ha capovolto il mondo come lo conoscevamo da ottant’anni, Trump elenca nuovamente le paci che si è intestato: “Abbiamo risolto otto conflitti violentissimi – tra cui quello tra Cambogia e Thailandia, Kosovo e Serbia, Repubblica democratica del Congo e il Ruanda, Pakistan e India, Israele e Iran, Egitto ed Etiopia, Armenia e Azerbaigian, e abbiamo posto fine alla guerra a Gaza con la restituzione di tutti gli ostaggi vivi alle loro famiglie”. L’America è di nuovo forte e rispettata, scrive Trump, “e grazie a questo stiamo portando la pace in tutto il mondo”. Davvero?
Repubblica democratica del Congo e Ruanda
I ribelli alleati del Ruanda, il gruppo M23, martedì marciavano verso Uvira, nell’est della Repubblica democratica del Congo, vicino al confine con il Burundi, dopo giorni di violenti combattimenti, a ritmo forsennato, trenta chilometri ingoiati in poche ore: Uvira è la terza città più grande della regione del Kivu, nel Congo orientale, dopo Goma e Bukavu, entrambe sotto il controllo dell’M23, che dall’inizio del 2025 ha conquistato questa vasta area ricca di oro, coltan e stagno. L’M23 ha respinto i soldati congolesi, le truppe burundesi e la milizia Wazalendo (entrambe alleate del Congo) in un’offensiva iniziata poco prima che i presidenti ruandese e congolese firmassero un accordo di pace alla Casa Bianca il 4 dicembre. L’accordo di Washington, “storico” naturalmente, intende porre fine a 30 anni di conflitto nelle regioni di confine tra Ruanda, Burundi e Congo ed è sostenuto da garanzie di accesso per l’America ai giacimenti di minerali e da un patto di integrazione economica regionale. Ma è un pezzo di carta. “Il giorno dopo la firma, alcune unità delle Forze di difesa ruandesi hanno condotto e sostenuto attacchi con armi pesanti lanciati dalla città ruandese di Bugarama”, ha dichiarato il presidente congolese Félix Tshisekedi in Parlamento lunedì, definendola “un’aggressione ingiusta”. Migliaia di congolesi sono in fuga e si aggiungono ai quasi 2 milioni di sfollati dall’inizio dell’anno. L’M23 – che dice di difendere gli interessi e le vite dei tutsi, la minoranza etnica del Congo orientale – è coinvolto in colloqui paralleli con il governo congolese, mediati dal Qatar, e non ha firmato l’accordo di Washington. Il governo ruandese, che nega di sostenere e armare l’M23, dice che le sue truppe hanno attraversato il confine come “misura difensiva” e accusa l’esercito congolese di collaborare con i ribelli delle Forze democratiche per la liberazione del Ruanda (Fdlr), che includono miliziani hutu e le cui origini possono essere ricondotte alle milizie che compirono il genocidio dei tutsi in Ruanda nel 1994. La conquista di Uvira da parte dell’M23 mette in pericolo anche il governo del vicino Burundi, che ha inviato migliaia di truppe per sostenere le forze congolesi: la pace non c’è, e la guerra si allarga (ricorda qualcosa?).
Israele e Iran
“Congratulazioni a tutti!”, ha scritto Trump su Truth il 24 giugno scorso, annunciando il cessate il fuoco, mediato da Washington e dal Qatar, che “pone fine” alla guerra dei dodici giorni tra Israele e Iran. Due giorni prima, con l’“Operazione Martello di Mezzanotte”, i bombardieri americani avevano lanciato le bombe “bunker buster” e i missili Tomahawks contro i siti nucleari iraniani di Isfahan, Fordo e Natanza: è questo intervento militare, oltre alla mediazione, che fa dire a Trump di essere l’artefice della “pace”. E ha fatto sì che l’Amministrazione americana aprisse un’inedita collaborazione con Teheran, che si sostanzia nel rispedire in Iran cittadini iraniani che vivono – e che hanno trovato rifugio – negli Stati Uniti. Nei giorni scorsi è partito un secondo volo dagli Stati Uniti diretto nella Repubblica islamica – il primo era partito a settembre – con a bordo cittadini iraniani che, secondo il ministero degli Esteri di Teheran, “hanno dato la loro disponibilità al ritorno in seguito alla politica anti immigrazione e discriminatoria contro i cittadini stranieri, in particolare iraniani, da parte degli Stati Uniti”. Sono almeno 55 questi deportati volontari: l’Ice, l’agenzia anti immigrazione, non ha rilasciato commenti, ha soltanto detto: “Questi voli partono ogni giorno”. La Bbc ha raccontato la storia di Majid (nome di fantasia) che era arrivato negli Stati Uniti nell’ottobre del 2024, in fuga dall’Iran dove era stato arrestato e torturato per aver partecipato alle proteste e per essersi convertito al cristianesimo. Era in carcere in Texas, perché la sua richiesta di asilo era stata rifiutata: è stato deportato prima in Nicaragua, poi messo su un volo diretto a Teheran, con scalo a Istanbul, dove è riuscito a scappare. Queste deportazioni sono in contrasto sia con la storica, questa sì, accoglienza americana nei confronti dei dissidenti iraniani, ma anche con le molte dichiarazioni di Trump contro le persecuzioni dei cristiani.
Israele e Hamas
C’è un’espressione con cui Donald Trump ama spesso descrivere le infinite possibilità che si sono aperte con l’accordo in tre fasi accettato da Israele e Hamas per mettere fine alla guerra a Gaza e permettere il ritorno degli ostaggi rapiti in Israele: “nuovo medio oriente”. Dentro questa espressione, Trump comprende tutto, ma su una cosa ha ragione: il nuovo medio oriente non può realizzarsi fino a quando la Striscia di Gaza sarà nelle mani di Hamas e oggi, metà di Gaza è esattamente nelle mani dei gruppi di terroristi che ha scatenato la guerra il 7 ottobre. Il presidente americano ha annunciato che presto inizierà la “seconda fase dell’accordo”, che prevede il disarmo di Hamas, condizione indispensabile per iniziare la ricostruzione e prevede che si insedi un nuovo governo. Il problema è che non esiste un modo per disarmare i terroristi, nessuno ha intenzione di entrare in conflitto con gli uomini di Hamas per costringerli a cedere le armi e prendere la via dell’esilio per permettere lo sviluppo di Gaza. La parte di Striscia controllata dal gruppo è inaccessibile, i terroristi aggiustano i prezzi dei beni di prima necessità come preferiscono, governano con il terrore, regolano i conti con chi ritengono un oppositore e Trump non ha un modo per fermare questa situazione. Nessuno dei paesi che sostengono il piano sono pronti a entrare a Gaza, rimane soltanto Israele e chiedere a Tsahal di riprendere la guerra per eliminare ogni residuo di Hamas vuol dire riaprire il conflitto. La presenza del gruppo chiude ogni strada all’istituzione di uno stato palestinese e a sua volta blocca ogni implementazione degli Accordi di Abramo, che Trump ama pronunciare in ebraico (“Avraham”) e che non saranno mai effettivamente compiuti fino a quando l’Arabia Saudita non sarà parte dell’intesa di normalizzazioni con Israele che, in effetti, sarebbe la rivoluzione del “nuovo medio oriente”.
Armenia e Azerbaigian
Nell’agosto scorso, Trump ha ospitato alla Casa Bianca i leader di Armenia e Azerbaigian per firmare con loro un accordo di pace che ha un punto centrale: la Trump Route for international Peace and Prosperity (Tripp), la strada che dovrebbe permettere i commerci e collegare l’Azerbaigian con l’exclave di Nakhchivan passando per l’Armenia. Il premier armeno Nikol Pashinyan e il presidente azero Ilham Aliev dopo anni di scontri e poco prima che Baku decidesse di iniziare un’invasione nella parte dell’Armenia meridionale, si sono ritrovati a celebrare la simmetria di un accordo fatto di investimenti, commercio, in cui anche le aziende americane hanno da guadagnare, in cui gli azeri hanno molti vantaggi e gli armeni decisamente meno. Trump ha anche conquistato la targa con il suo nome da apporre al progetto infrastrutturale che rappresenta alla perfezione l'idea di pace che la sua Amministrazione sta promuovendo: se c’è commercio, non c’è guerra. Un’idea simile ha spinto i rapporti dell’occidente con la Russia per decenni (Frieden durch Handel) ed è già stata smentita con la guerra contro l’Ucraina, eppure Trump continua a usare il metro del commercio per dichiarare i suoi accordi. Ed è proprio qui che risiede tutta la fragilità della pace nel Caucaso meridionale: il Tripp risponde alle priorità dell’Azerbaigian (vie di transito, demarcazione dei confini, legittimazione occidentale), ma non prevede una riconciliazione formale e in un’area in cui le influenze straniere di Russia, Iran e Turchia sanno come trarre vantaggio dall’instabilità.
India e Pakistan
I media indiani hanno contato tutte le volte in cui Trump si è preso i meriti per aver mediato il cessate il fuoco tra India e Pakistan lo scorso 10 maggio, dopo quattro giorni di combattimenti dall’inizio dell’Operazione Sindoor, annunciata dal primo ministro indiano Narendra Modi in ritorsione all’attacco terroristico del 22 aprile nel Kashmir amministrato dall’India. Delhi ha smentito sin dall’inizio questa versione, assicurando che non ci fosse stata nessuna “pressione esterna” nella decisione, presa dall’India dopo una chiamata del direttore generale delle operazioni militari del Pakistan che aveva “implorato aiuto”. Anche il Pakistan all’inizio aveva smentito qualsiasi coinvolgimento americano, poi però aveva cambiato idea unendosi ai paesi promotori del Premio Nobel per la pace a Trump. Nel documento della nuova Strategia per la sicurezza nazionale è scritto che Trump avrebbe “negoziato la pace” tra India e Pakistan, ma anche sulla definizione di “pace” né l’India né il Pakistan sono d’accordo: per Delhi l’Operazione Sindoor è ancora attiva, subito dopo l’entrata in vigore del cessate il fuoco Modi aveva sottolineato che fosse tutt’altro che conclusa, e che il suo futuro sarebbe dipeso soltanto dal comportamento del Pakistan. Gli attacchi terroristici, solitamente limitati alle zone di confine, sono continuati e poche settimane sono arrivati nelle capitali di entrambi i paesi: prima lo scorso 10 novembre l’esplosione di un’auto vicino al monumento del Red Fort ha provocato 15 morti nel primo attacco terroristico a Delhi in 13 anni, poi il giorno dopo un altro attentato suicida ha ucciso 12 persone fuori un tribunale nella periferia di Islamabad. Per l’intelligence indiana gli attacchi sul suo territorio sono del gruppo terroristico pachistano Jaish-e-Muhammad (JeM), mentre sull’attentato a Islamabad il primo ministro pachistano Shehbaz Sharif ha accusato senza alcuna prova le “cospirazioni dell’India”, prima che una fazione dei talebani pachistani di al Tehrik-e-Taliban Pakistan rivendicasse l’attacco. Le accuse del Pakistan all’India hanno avuto un effetto anche sulle tensioni con l’Afghanistan dei talebani.
Thailandia e Cambogia
Mi tocca chiamarli di nuovo, questi due sconsiderati, ha detto più o meno l’altro ieri durante un comizio in Pennsylvania il presidente americano, il presidente della pace nel mondo: “Odio dirlo”, ha detto, “ma si tratta della Cambogia e della Thailandia, è iniziato oggi e domani dovrò fare una telefonata”. Ma non era tutto risolto? Il conflitto fra Bangkok e Phnom Phen è un altro dei molti bluff che la Casa Bianca rivendica: a negoziare finora fra i due paesi ci ha provato la Malaysia di Anwar Ibrahim, per ragioni geografiche ed economiche il paese più interessato alla stabilità della regione, eppure finora non è riuscita nemmeno Kuala Lumpur a ottenere un cessate il fuoco che durasse. Il problema fra Thailandia e Cambogia è storico, si ripropone di frequente ma non arrivava a questi livelli di escalation da decenni. Dopo una prima tregua a luglio, appoggiata anche dall’America, il regime cambogiano guidato dagli Hun e sostenuto da Cina e Russia ha continuato a provocare lungo il confine, piazzando mine, provocando sparatorie, aggressioni. La Thailandia, terza economica del sud-est asiatico dopo Indonesia e Singapore, hub produttivo e logistico e soprattutto con Forze armate di prim’ordine in Asia, aveva bisogno di mandare un messaggio alla Cambogia (e alla sua popolazione) e qualche giorno fa ha deciso di bombardare le installazioni militari cambogiane lungo il confine condiviso di 800 chilometri. Il conflitto si è riaperto, e ora Bangkok è pronta a usare anche missili a lungo raggio. Ci sono già decine di migliaia di sfollati. In estate il governo cambogiano aveva candidato Trump al Premio Nobel per la Pace, ma come ha dimostrato la fragile tregua di luglio, la situazione è così complessa che non basterà una telefonata.
Serbia e Kosovo, Egitto ed Etiopia
“Sono lieto di annunciare un impegno davvero storico. Serbia e Kosovo si sono entrambi impegnati a normalizzare la loro economia”. Il passo era importante, ma lontanissimo dal risolvere i problemi e assorbire le tensioni molto pericolose che ancora persistono fra i due paesi. Nel 2020, serbi e kosovari accettarono di collaborare su alcune questioni economiche, di impegnarsi per creare posti di lavoro, ma i problemi fondamentali rimangono: la Serbia non riconosce il Kosovo, gli scontri violenti dentro al Kosovo vanno avanti e ogni tanto Belgrado innalza l’allerta militare al confine. Tutti i tentativi dell’Ue di mediare sono fallimentari, per Trump è bastato un annuncio commerciale per dichiarare la pace. Con la stessa velocità, sempre durante il primo mandato, si affrettò a dire, riferendosi ai rapporti fra Egitto ed Etiopia: “C’è pace, almeno per ora, grazie a me”. Aveva ospitato a Washington dei colloqui che non servirono a placare i problemi legati alla disputa sulla Grande Diga del Rinascimento etiope (Gerd), costruita sul Nilo, inaugurata quest’anno e a causa della quale l’Egitto teme riduzioni del flusso di acqua. Trump è tornato sull’argomento di recente, dicendo: “Se fossi l’Egitto vorrei avere acqua dal Nilo… Pensiamo che risolveremo il problema”. Questa volta, l’ammissione di non essere riuscito a portare la pace è sua.
A cura di Paola Peduzzi, Micol Flammini, Giulia Pompili e Priscilla Ruggiero