Sulla libertà d'espressione Musk sbaglia bersaglio

Carlo Stagnaro

L’Unione europea non uccide la libertà d’espressione: spesso la difende dai governi nazionali, come quello ungherese ammirato dal tycoon. Scioglierla vorrebbe dire più regole, meno mercato e meno diritti

Dopo che X ha avuto 120 milioni di euro di sanzione per presunte violazioni del Digital Services Act (Dsa), Elon Musk si è lanciato in una mitragliata di tweet contro l’Unione europea. Ha accusato i Commissari Ue di “omicidio dell’Europa”, di impedire la libera espressione delle idee e di promuovere lo spopolamento del continente e la decadenza della nostra cultura. Ergo, ha concluso che bisogna “dissolvere l’Ue e restituire il potere al popolo”. Molti, a partire dal vice presidente americano J. D. Vance, hanno nella sostanza fatto proprie le accuse dell’uomo più ricco del mondo.

 

Musk ha ragione sul fatto che molte norme europee frenano, invece di favorirle, l’innovazione e la crescita. Ma ha torto su tutto il resto. L’integrazione europea è stata un potente volano di sviluppo economico, grazie soprattutto al venire meno delle barriere tariffarie interne e all’abbattimento di molti ostacoli agli scambi e alla concorrenza tra stati europei. Senza l’Unione, difficilmente oggi potremmo scegliere il fornitore di servizi di telecomunicazione o dell’energia, e molto probabilmente non avremmo visto la privatizzazione degli ex monopolisti e l’apertura dei mercati in cui essi facevano il bello e il cattivo tempo. Molti paesi, Italia in primis, avrebbero i bilanci pubblici scassati e non avrebbero goduto di un oltre un ventennio di bassa inflazione pressoché ininterrotta. Uno studio dell’economista Basile Grassi (Università Bocconi) sui dieci paesi che entrarono nell’Ue nel 2004 suggerisce che circa il 32 per cento dell’aumento del pil pro capite è spiegato dall’accesso al mercato europeo. Questa è una misura dei benefici che ne abbiamo tratto.

 

É però vero che, negli ultimi anni, l’Ue sembra aver esaurito questa spinta verso la maggiore integrazione economica, sostituendola con la pretesa di imbrigliare e guidare l’innovazione tecnologica, dal digitale al Green Deal. Tale cambiamento si è nutrito della retorica delle emergenze, come se queste potessero essere affrontate e risolte solo con “più Europa”, cioè facendo fare all’Unione più cose, e trovando in ciascuna di esse un collante politico. Un lavoro di Luis Garicano, Bengt Holmström e Nicolas Petit ha dimostrato che questa tendenza a regolare si è tanto più rafforzata quanto più si indeboliva la volontà della Commissione di rintuzzare i tentativi degli stati membri di andare per la propria strada, frammentando il mercato: il numero di procedure di infrazione si è ridotto del 75 per cento in un decennio, mentre la loro durata è aumentata a dismisura. Insomma, il perimetro delle attività Ue si è esteso, ma ne ha perso l’efficacia. Proprio nel digitale si è vista la produzione di “una valanga di norme guidate dal cosiddetto ‘effetto Bruxelles’, cioè la teoria secondo cui la semplice redazione di regole giuridiche stabilisce standard globali e conferisce così alle imprese europee un vantaggio competitivo”. Sfortunatamente, spiegano Garicano, Holmström e Petit, “l’effetto Bruxelles ha generato costi elevati che danneggiano le imprese europee più dei loro concorrenti globali. Ad esempio, il Regolamento generale sulla protezione dei dati (Gdpr) favorisce i colossi tecnologici statunitensi, in grado di sostenere gli enormi costi di conformità, ma penalizza le startup europee. Uno studio recente mostra che il Gdpr ha ridotto gli investimenti di venture capital nel settore tecnologico dell’Unione Europea del 26 percento rispetto agli Stati Uniti”.

 

Sotto questo profilo, le polemiche di Musk colgono nel segno, anche se l’enfasi sulla libertà di espressione può essere fuorviante. Certo, alcune norme europee (in particolare quelle contenute nel Dsa) incrociano direttamente la condotta delle piattaforme e la libertà di produrre o divulgare contenuti, privilegiando il diritto dei consumatori a una “corretta informazione”. Tuttavia, la definizione di “corretta informazione” è scivolosissima e l’attribuzione di una responsabilità alle piattaforme rischia di generare una sorta di comportamento autodifensivo che, nella pratica, cammina sul crinale con la censura. Eppure, dipingere l’Europa come un luogo dove la libertà di espressione è concretamente minacciata è fuorviante. Il Cato Institute – il principale think tank libertario americano – compila uno Human Freedom Index che indaga varie dimensioni della libertà umana, tra cui appunto la libertà di parola. Il sub-indice dedicato a “libertà di espressione e informazione” vede nove Stati membri dell’Ue (Danimarca, Irlanda, Svezia, Finlandia, Portogallo, Lussemburgo, Estonia, Germania e Repubblica Ceca) più la Gran Bretagna ottenere un punteggio migliore degli Stati Uniti, che arrivano solo in ventiseiesima posizione. Paradossalmente, è proprio l’autocensura dei media (assieme agli attacchi ai giornalisti) ad appesantire il risultato degli Usa, un paese dove pure la libertà di espressione è rigidamente protetta dal Primo emendamento.

 

Questo, naturalmente, non significa che non vi siano problemi in Europa né che la condizione della libertà di parola (e, ancora più, della libertà economica in generale) non potrebbe migliorare. Aiuta però a mettere a fuoco due aspetti che sembrano sfuggire completamente a Musk. In primo luogo, se diversi paesi europei ottengono una valutazione così lusinghiera è perché, con tutti i suoi difetti e con tutti i limiti delle sue normative, l’appartenenza all’Ue non mette sotto schiaffo la facoltà delle persone di esprimere i loro pensieri, quali che essi siano. Anzi, probabilmente in molti stati membri sono le norme europee e impedire ai governi di intervenire in modo più pesante per limitarla. Per esempio, l’Ungheria, spesso lodata da Musk, ottiene un punteggio di appena 5,47 (su un massimo di 10) nell’indice del Cato sulla libertà di espressione, collocandosi in centounesima posizione (è il peggiore dell’Ue). Interrogando su questo tema Grok, l’intelligenza artificiale di Musk, si ottiene la seguente risposta: “Sì, la libertà di espressione in Ungheria è attualmente minacciata in modo significativo, come dimostrato da una serie di misure governative, leggi repressive e pressioni sistematiche sul panorama mediatico e civile. Sotto il governo di Viktor Orbán e del partito Fidesz, l’Ungheria ha visto un progressivo deterioramento di questo diritto fondamentale, con impatti che la rendono uno dei paesi più critici all’interno dell’Unione Europea”.

 

Questo ci porta a un secondo e più importante argomento. Anche prendendo a valore facciale gli attacchi di Musk, essi sembrano presupporre che, abolendo l’Ue, il problema in qualche modo si risolverebbe: una volta liberi, gli stati membri avrebbero un’economia più sana, norme più favorevoli all’innovazione e un atteggiamento più tollerante verso le idee di tutti. Le evidenze di cui disponiamo ci dicono il contrario. Prendiamo il caso dell’economia digitale: per quanto le leggi europee siano punitive e spesso orientate dalla tutela di micro-interessi locali, esse sono state approvate con l’entusiastico supporto dei governi nazionali e del Parlamento europeo. Inoltre, una delle motivazioni (e non la meno rilevante) per cui ciò avvenne fu lo sforzo di prevenire la proliferazione di norme nazionali ancora più caotiche e luddiste. Talvolta Bruxelles è riuscita a ostacolarle: per esempio, mentre l’AI Act europeo è stato varato solo dopo un lungo dibattito e numerosi compromessi che ne hanno fortunatamente depotenziato i contenuti, e che oggi sono nuovamente oggetto di ripensamenti, l’Italia ha voluto fare di più, adottando una legge nazionale sull’intelligenza artificiale che sarebbe comica se non fosse tragica. La norma italiana impone obblighi ancora più assurdi e stringenti di quella europea. Sempre in materia digitale, l’Italia ha approvato leggi che impediscono alle piattaforme come Booking di garantire ai clienti i prezzi più bassi sul mercato, limitano pesantemente le locazioni brevi, vietano gran parte delle piattaforme di ride sharing, introducono tasse ad hoc sugli acquisti online, impongono l’uso di Spid per accedere a siti pornografici. È sulla base di norme nazionali che il Garante della Privacy ha temporaneamente oscurato ChatGpt, ed è nella sua autonomia che l’Antitrust italiano ha aperto un procedimento contro l’integrazione dell’intelligenza artificiale nei sistemi di Whatsapp (ne scrive ampiamente Sergio Boccadutri su AgendaDigitale.eu). Nulla di tutto ciò accade a causa dell’Unione europea; anzi, molte di queste misure sono in vigore nonostante l’Ue e per la timidezza di Bruxelles nell’imporre il rispetto delle regole comuni. Il campionario di altri paesi è simile o perfino peggiore.

 

L’ulteriore controprova è arrivata durante il Covid, quando – per facilitare le risposte degli stati membri alla pandemia – l’Ue ha nei fatti sospeso sia il patto di stabilità e crescita (attraverso l’attivazione della clausola di salvaguardia generale), sia le norme sugli aiuti di stato (col quadro temporaneo). Questo non ha spinto gli stati membri a ingaggiare una competizione virtuosa per sfruttare l’opportunità di semplificare le leggi e favorire l’innovazione, ma il suo opposto: tutti i governi nazionali si sono precipitati a erogare aiuti di stato alle “proprie” imprese, falsando la concorrenza e mettendo sotto pressione i bilanci pubblici. Sempre per fare esempi italiani, né il Superbonus, né l’estensione del Golden Power sarebbero stati immaginabili al di fuori di quelle circostanze eccezionali: eppure, ad anni di distanza, l’uno zavorra le finanze pubbliche e ha sostanzialmente vanificato due decenni di sforzi per evitare il ritorno ai guasti degli anni ottanta, l’altro consegna al governo il potere arbitrario di far fallire qualunque operazione societaria sgradita. Ironia della sorte: forse un freno arriverà dalla procedura di infrazione Ue aperta il 21 novembre. Questo ci dà un’idea di cosa vedremmo se facessimo piazza pulita dell’Ue.

  

L’idea che l’Europa possa crescere solo attraverso le crisi, d’altronde, ha favorito una costante forzatura dei trattati e l’adozione di norme cervellotiche che hanno fatto esplodere la burocrazia e il caos normativo. Un recente studio di Epicenter ha rilevato, non per nulla, la crescente complessità delle norme europee, misurata per esempio attraverso la lunghezza dei testi normativi, la farraginosità sintattica o le complicazioni lessicali. Garicano, Holmström e Petit battono precisamente su questo quando invitano l’Ue a ridurre il perimetro dei suoi interventi, approfondendone invece l’attuazione: non serve regolare ogni aspetto dell’attività d’impresa, serve disciplinare bene gli ambiti essenziali e garantire che le norme siano poi rispettate. Per intendersi, quando l’ex commissario Thierry Breton annunciava che l’Ue era la prima e unica giurisdizione al mondo a regolare l’intelligenza artificiale, stava in realtà offrendo una perfetta diagnosi del male europeo. Né aiuta il sospetto di un uso geopolitico dell’Antitrust europeo, che sembra accanirsi sulle piattaforme americane (è di ieri la notizia dell’ennesimo caso contro Google, ancora una volta legato all’uso dell’AI).

 

Questo male non si cura, come sembra credere Musk, abolendo l’Unione europea: al contrario, l’Ue deve tornare a fare da argine ai vincoli immotivati e dannosi degli stati membri, invece di esserne essa stessa una fonte inesauribile. La Commissione ne è in parte consapevole, come sembra confermare la pubblicazione a maggio 2025 di una comunicazione sul mercato interno che individua numerose barriere agli scambi interni (per esempio molte norme nazionali su etichettatura e packaging dei prodotti o il mancato riconoscimento delle abilitazioni professionali rilasciate in altri stati). Purtroppo questo timido risveglio sembra essersi già arrestato per le resistenze degli interessi che vivono precisamente di queste micro-protezioni. Dopo aver messo nel mirino le “terrible ten”, le grandi barriere interne erette dagli stati per aggirare le liberalizzazioni europee, Bruxelles non ha più dato segni di vita. Ma prendendo di mira l’Ue, Musk non ne agevola il lavoro liberalizzatore, semmai lo ostacola. Nel dibattito europeo dà fiato a chi vorrebbe più regole per spezzare le reni alle Big Tech (e suscita una reazione ancora più sproporzionata a Washington). Non è una forza dell’ordine ma del caos. E’ comprensibile l’irritazione per la sanzione e per gli obblighi del Dsa e forse ha ragione ad arrabbiarsi: ma dovrebbe stare attento a quello che si e ci augura. Potrebbe ottenerlo.

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