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in Siria

Il fascino di al Sharaa

Luca Gambardella

Da assassino jihadista a ospite di Trump (e di molti altri leader). A un anno dalla caduta del regime di Assad, la storia di questa nuova Siria che ci fa credere qualsiasi cosa

"È un ragazzo giovane e attraente. Uno tosto. Con un forte passato. Molto forte. Un combattente”. Se c’è una cosa ormai chiara è che a Donald Trump piace, e molto, Ahmed al Sharaa e le parole spese nei suoi confronti, subito dopo il loro primo incontro a Riad lo scorso maggio, hanno destato miriadi di interrogativi. Cosa spinge un presidente americano a stringere la mano a un terrorista, ex miliziano di al Qaida in Siria? Cosa avrà in mente di fare Donald Trump con Ahmed al Sharaa? A un anno dalla caduta del regime di Bashar el Assad per mano di Abu Muhammad al Julani, la versione islamista dismessa subito dopo la sua entrata a Damasco da vincitore, Ahmed al Sharaa si ritrova a essere uno dei (pochi) capi di stato del medio oriente a risultare davvero “attraenti” agli occhi di Trump. “A lui piacciono i leader”, aveva sintetizzato al Foglio qualche settimana fa Tarek Naemo, il lobbista del presidente siriano a Washington, colui che ha preparato il terreno per la storica visita alla Casa Bianca del mese scorso. “Soprattutto, Trump sa difendere i suoi interessi, come Sharaa”. Naemo si era spinto oltre: “Per Donald dialogare con Damasco è davvero ‘America First’”.

   

C’è molta poca religione, c’è molto poco islamismo in tutto questo e invece c’è molta economia e c’è molto pragmatismo. Forse è questo il motivo per cui Donald e Ahmed vanno tanto d’accordo e non sorprende che Sharaa abbia dismesso i panni dell’ex terrorista di al Nusrah per fare il giro del mondo e aprire le porte del palazzo presidenziale di Damasco ai capi di stato di tutto il mondo per dire “venite a parlare con noi, investite qui il vostro denaro”. Da covo del dittatore sanguinario Assad, costretto nella sua gabbia d’oro – o a sporadiche visite agli sponsor di Teheran e Mosca – il palazzo bianco sul Monte Mezzeh è diventato il tempio del neo omayyadismo. Lo definiscono così, il nuovo corso ideologico di Sharaa, che pure sin dal 2016, dai tempi in cui reggeva il potere a centinaia di chilometri da Damasco, nella città stato di Idlib, aveva sempre rifuggito dalla “trappola” dell’inquadramento ideologico. Secondo Patrick Haenni e Jerome Drevon, due ricercatori che hanno da poco pubblicato un libro intitolato “Transformed by the People: Hayat Tahrir al-Sham’s Road to Power in Syria”, Sharaa ha sempre avuto un approccio realista nel guidare l’evoluzione di Hts e si è ritrovato a fare una serie di scelte tattiche che alla fine hanno preso la forma di una strategia compiuta. A Idlib, il suo primo scopo fu quello di mantenere la sopravvivenza della sua sacca di resistenza. Per farlo, rinnegò silenziosamente al Qaida avvicinandosi a gruppi meno radicali come Ahrar al Sham, accettò le offensive dei turchi con il tacito consenso dei russi e di tanto in tanto si dimostrò disposto a collaborare con la coalizione internazionale nella guerra contro l’Isis. Si aprì al mondo, insomma, e iniziò a combattere lo Stato islamico ben prima della sua avanzata verso Damasco, con lo scopo di dimostrare all’occidente che sanzionare Hts come organizzazione terroristica era un errore. Favorì la creazione di un tessuto economico che rese Idlib più avanzata e con condizioni di vita migliori del resto della Siria sotto il regime. Indirizzò gli introiti derivati dai traffici alla frontiera con la Turchia nella costruzione di palazzi moderni e di un centro commerciale all’avanguardia. Un approccio che partiva da problemi concreti – l’amministrazione, l’economia – inedito per un qaidista e che però lo ha portato negli anni a diventare l’unico grande interlocutore nella miriade di gruppi e milizie in cui gli oppositori di Assad erano divisi. In tutto questo, l’islam era solo un tassello del mosaico, un tassello peraltro derubricato nelle sue connotazioni più estremiste. Il salafismo originario fu così “addolcito” in una islam più moderato al punto che oggi anche a Damasco gli ulema sono ancora tutti affiliati alle dottrine più mainstream del Consiglio islamico siriano, filo turco.

   

Se la religione c’entra poco per spiegare Sharaa oggi, per molti osservatori è il populismo la chiave del suo potere. Chiamare a raccolta una nazione lacerata da una guerra lunga e sanguinaria, martoriata da un regime che era espressione di una minoranza – quella alauita – necessita ora per Sharaa la ricerca di un’identità politica in grado di essere compresa da tutti, soprattutto dai meno istruiti. Ii partiti sono ancora inesistenti in Siria – i due terzi dell’Assemblea parlamentare votati alle elezioni dello scorso ottobre non si sono ancora riuniti perché si attente che l’ultimo terzo, quello nominato da Sharaa, sia annunciato – e il confronto politico in quanto tale è ancora assente. Ma secondo gli esperti, Sharaa coltiva segretamente una sorta di neo omayyadismo, solo in parte spiegato dalla prevalenza del secolarismo sull’estremismo. E’ la storia stessa della dinastia che tra il 661 e il 750 fece di Damasco la capitale di un impero sconfinato che andava dal nord Africa al Caucaso e all’Asia a ispirare oggi la leadership siriana. Gli omayyadi combatterono i discendenti sciiti di Ali, uccisero suo figlio Hussein, imposero il dominio sunnita con una politica tollerante nei confronti di cristiani ed ebrei e schiacciarono i gruppi più radicali. E’ un po’ quello che oggi sta cercando di fare Sharaa, che in patria sfoggia con tutti il suo consueto sorriso bonario da politico moderato, ma nei fatti ricorda a tutti che fino a pochi mesi fa indossava la mimetica e che oggi la maggioranza sunnita è tornata al potere. Si è visto a sud, a Suwayda, dove non ha esitato – sbagliando – di usare le maniere forti con i drusi, inviando migliaia di beduini sunniti a compiere razzie. I diplomatici occidentali dicono che ora Sharaa ha imparato la lezione e ora il presidente rassicura tutti che sarà clemente nei confronti delle minoranze spaventate. E’ un mix di nazionalismo e populismo che ha successo tra gran parte dei siriani, soprattutto quelli nelle periferie.

 

Gli altri, invece, gli attivisti ma anche coloro che hanno perso parenti e amici per mano del vecchio regime, vedono ancora oscuri fantasmi del passato aleggiare ancora sulla Siria post assadista. Gli attacchi alle minoranze alauite e druse hanno dimostrato che una componente radicale sfugge ancora al controllo di Sharaa. Poi c’è la questione forse ancora più sentita: quella di assicurare alla giustizia chi si è reso responsabile di crimini indicibili durante il regime. Su quest’ultimo fronte, Sharaa è stato ambiguo, come dimostrato dalla liberazione di molti ex esponenti di livello del periodo assadista, criminali e torturatori. Anche sulla questione della giustizia, per il presidente siriano, prevale il realismo. Shara vuole favorire una forma coesione sociale che prevede di non accanirsi troppo contro i residui del regime, cercando di integrarli piuttosto che spingerli all’opposizione armata. Solo in un secondo momento si propone, almeno a parole, alla costruzione di uno stato con parvenze di pluralismo. La scommessa interna – sperare che un popolo che ha già dimostrato di sapersi ribellare non lo faccia di nuovo, stanco delle strumentalizzazioni politiche e del settarismo – e quella esterna – augurarsi che la rimozione delle sanzioni internazionali dia ristoro all’economia del paese – sono le due incognite della Siria del futuro. Nel frattempo, agli occhi di Trump, Sharaa è già diventato un modello per il resto della regione, quello del terrorista rinsavito, cattivo con gli estremisti e aperto al dialogo con Israele. E’ un uomo forte su cui poter contare, più affine al presidente americano di quanto si possa immaginare. Forse anche per questo Benjamin Netanyahu preferisce non fidarsi.

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  • Luca Gambardella
  • Sono nato a Latina nel 1985. Sangue siciliano. Per dimenticare Littoria sono fuggito a Venezia per giocare a fare il marinaio alla scuola militare "Morosini". Laurea in Scienze internazionali e diplomatiche a Gorizia. Ho vissuto a Damasco per studiare arabo. Nel 2012 sono andato in Egitto e ho iniziato a scrivere di Medio Oriente e immigrazione come freelance. Dal 2014 lavoro al Foglio.