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l'editoriale del direttore

Se Trump la vuole più debole e Putin la vuole più divisa, non sarà che l'Ue è più forte di come ce la raccontiamo?

Claudio Cerasa

L’Europa mostra nei fatti una capacità d’azione che smentisce la narrativa della sua impotenza: è Popper, più che la propaganda, a suggerire quale versione regge davvero alla prova della realtà

La famosa teoria della falsificabilità di Karl Popper prevede che una teoria sia scientifica solo se può, in linea di principio, essere smentita dai fatti. In sintesi: se dicono che A è uguale a B, devo poter trovare un modo per falsificare quell’affermazione e dire, con credibilità, che A in verità non è uguale a B. Nel caso specifico, per arrivare ai nostri giorni, usare la teoria di Popper può aiutare a confutare una teoria diffusa che riguarda la nostra Europa. L’Europa, si dice, si ripete, si afferma, è debole, è impotente, è incapace di prendere decisioni. La teoria della falsificabilità di Popper, però, ci costringe a mettere alla prova anche l’affermazione contraria. Se dicessimo che l’Europa, invece, non è debole, non è impotente, non è incapace di prendere decisioni, avremmo più o meno argomenti per affermare la nostra verità? E la verità opposta alla prima, quella in teoria falsificata, siamo sicuri che sarebbe una verità più debole, e dunque falsa?

   

Lo spunto di riflessione non nasce da uno sterile esercizio retorico, ma nasce da una considerazione legata ad alcuni fatti che riguardano la stretta attualità e che in particolare riguardano due istinti paralleli e simmetrici che da mesi due importanti leader internazionali faticano a nascondere. In sintesi: l’odio per l’Europa coltivato da Donald Trump e da Vladimir Putin. Sia Trump sia Putin (se capita spesso anche a voi di avere dei lapsus e di dire “Trump” al posto di “Putin” o “Putin” al posto di “Trump” non vi preoccupate: non è rimbecillimento, è solo Freud) considerano l’Europa non un semplice avversario ma un nemico assoluto contro cui mettere in campo ogni strategia possibile per limitarne il raggio d’azione. Trump, dall’inizio del suo mandato, lo fa in modo trasparente, limpido, e considera l’Europa una minaccia. Per la sua ricchezza, per il suo mercato, per i suoi prodotti. In fondo, i dazi studiati contro l’Europa, da Trump, ma avrebbe potuto pensarli anche Putin, sono dazi contro le sue eccellenze: più un prodotto è pregiato, più quel prodotto è esportabile e più quel prodotto è esportabile, più diventa una minaccia per i beni che vengono prodotti nei paesi che importano quelle eccellenze. Trump, in prima battuta, teme l’Europa per quello che sa fare, e solitamente il presidente americano, quando deve provare a schiaffeggiare “i parassiti” europei, cerca di fargliela pagare in modo letterale e per nulla metaforico.

Voi, è il ragionamento di Trump, siete molto ricchi, siete benestanti, avete una ricchezza privata che noi ce la sogniamo, avete stati che hanno un debito sostenibile e per questo, se volete avere l’America al vostro fianco, dovete pagarci di più (energia o armi fa lo stesso). Dall’altra parte, invece, Putin l’Europa la considera un problema non per quello che sa fare ma per quello che rappresenta. E per la capacità che ha, nonostante tutto, di essere tuttora lo specchio riflesso di tutto quello che la Russia non potrà mai essere fino a quando ci sarà Putin: un’oasi di libertà, di benessere, di pace, di protezione dell’individuo. Putin teme l’Europa per quello che rappresenta, per i valori non negoziabili che l’Europa esporta, che sono beni preziosi almeno quanto le merci che produce. E come notato mesi fa da Foreign Policy, la Russia di Putin teme l’espansione dell’Unione europea forse persino più dell’espansione della Nato. Ogni allargamento dell’Ue rappresenta, per Putin e la banda dei corrotti al seguito – banda di corrotti di cui poco si occupano gli stessi filoputiniani che in queste ore stanno cercando di trasformare alcune inchieste in Ucraina nel simbolo della corruzione sistematica di un paese di eroi – una minaccia unica ai tentativi da parte di Putin di affermare il suo modello di governance illiberale. E in questo senso, per Putin, l’adesione e l’integrazione dell’Ucraina nell’Ue sarebbero un danno enorme perché trasformerebbero un paese che la Russia voleva far diventare satellite in un’alternativa politica, economica e culturale a tutto quello che la Russia è. Ma per Putin, naturalmente, l’Europa non è un problema solo per quello che rappresenta e per quello che è. Ma anche per quello che fa. E si capisce il nervosismo mostrato da Putin nelle ultime ore. Se non ci fosse stata l’Europa a proteggere Zelensky, Trump (stavamo per scrivere Putin: è Freud) avrebbe già dato a Putin tutto quello che Putin chiedeva per chiudere la guerra. Se non ci fosse stata l’Europa a proteggere l’Ucraina, Putin probabilmente sarebbe entrato con il suo esercito nel paese che voleva conquistare in tre giorni e che non è ancora riuscito a domare dopo quattro anni come la lama nel burro, cosa che non è accaduta, anche perché l’Europa ha messo sul piatto una quota di aiuti all’Ucraina superiore rispetto a quella messa dagli Stati Uniti (due giorni fa, intanto, un paese non europeo, ovvero il Canada, ha raggiunto un accordo con l’Ue per sottoscrivere il programma Security Action for Europe, lo strumento per la Difesa da 150 miliardi di euro pensato per rafforzare la base industriale della Difesa europea). Se non ci fosse stata l’Europa a proteggere l’Ucraina, infine, Putin non avrebbe avuto difficoltà a dissimulare le difficoltà economiche della sua Russia, con il crollo dei ricavi energetici, la crisi del carbone, Gazprom in difficoltà per la perdita del mercato europeo, un deficit pubblico in aumento, investimenti civili in calo e un’economia polarizzata verso la spesa militare (due giorni fa Putin è stato costretto ad affermare pubblicamente che la crescita economica russa rallenterà tra lo 0,5 e l’1 per cento e che questo, sono parole di Putin, “non è accettabile”). Si capisce dunque che Putin sia indispettito dall’idea che il piano di pace inizialmente scritto in russo e poi tradotto in inglese sia diventato un piano scritto con l’intelligenza naturale europea combinata con la diplomazia americana e che per questo sia diventato poco digeribile agli occhi dell’intelligenza criminale del mondo putiniano, ragione per cui la Russia in queste ore chiede a Trump di scegliere da che parte stare nel conflitto in Ucraina: con l’Europa o con noi? Si capisce dunque, ancora, che Putin abbia mostrato sconcerto di fronte alla possibilità che la Nato, e l’Europa in particolare, possa pensare anche a una sua deterrenza (linea Cavo Dragone) per prevenire gli attacchi e gli sconfinamenti putiniani – e forse l’occidente, che spesso si autodescrive come sull’orlo del collasso, è meno debole di quanto racconti, quando mostra i muscoli e non accetta di dover invece porgere sempre l’altra guancia. E si capisce dunque, infine, come Putin, ogni volta che ne ha occasione, faccia sapere che per essere meno rigido nelle trattative di pace pretende che vengano alleggerite le sanzioni europee – e forse dunque non è vero, come sostiene in Europa qualche cagnolino politico a seguito di Putin, che le sanzioni sono un danno più per la nostra economia che per quella russa (ieri c’è stato al Parlamento europeo il via libera sulla proposta della Commissione relativa allo stop totale delle importazioni del gas da Mosca entro fine 2027, con graduale eliminazione del petrolio). E dunque, sì, certo, l’Europa di oggi ha di fronte a sé una sfida esistenziale, che potrebbe anche costringerla a fare l’opposto di ciò che professa ogni giorno Giorgia Meloni, ovvero far di tutto per tenere l’occidente unito. Ed è vero, come ha scritto ieri Federico Fubini sul Corriere, che su molte sfide esistenziali l’Europa deve fare di più (attualmente, in effetti, dipende dalla Cina per materiali strategici, litiga sulle riserve russe da destinare all’Ucraina, non riesce a trovare ancora una chiave per mettere insieme una Difesa comune). Ma un conto è dire che l’Europa può e deve fare di più. Un altro è dire che l’Europa è debole. Perché se così fosse non si capisce per quale ragione, da mesi, da anni, i nemici dell’Europa, come Trump e come Putin, si battono ogni giorno affinché l’Europa sia più debole, più fragile, più impotente. E se prendiamo sul serio la lezione di Popper – che ci invita a testare le narrazioni contro i fatti che potrebbero smentirle – forse dire che l’Europa non è debole, non è impotente, non è incapace di prendere decisioni è un’affermazione che oggi regge ai fatti meglio del suo contrario.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.