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Dalla politica ai giganti della Silicon Valley, la comunità indiana negli Stati Uniti è sempre più influente 

Giulio Silvano

Non solo Mamdani. Da Satya Nadella a Sundar Pichai, il successo indiano va oltre la politica e si concentra nei vertici aziendali. Secondo l’economista Shruti Rajagopalan, i motivi principali sono due: un buon sistema educativo nazionale e la capacità di gestire situazioni sociali complesse

Alle elezioni del 1956, per appena tremila e duecento voti, Dalip Singh Saund diventò deputato al Congresso rappresentando il 29esimo distretto della California. Alcune sopracciglia si alzarono anche solo al suono del suo nome, perché un immigrato aveva appena sconfitto alle urne una delle più celebri pilote militari, l’americanissima e biondissima Jackie Cochran, che aveva guidato le squadriglie aeree femminili durante la guerra. Nato nel Punjab da genitori sikh, Saund era emigrato per studiare a Berkeley, dove restò per un dottorato, sposò una donna bianca e, seguendo la linea progressista di Franklin Roosevelt, divenne il primo deputato di origine indiana della storia statunitense. Se Saund era un’eccezione, oggi i corridoi di Capitol Hill, i palazzi brutalisti di Washington e i parlamenti statali sono pieni di persone con origini nel sud-est asiatico.

 

“La diaspora indiana ha un’influenza politica che eccede notevolmente il suo peso demografico”, ha scritto di recente Le Monde. Negli Stati Uniti ci sono poco meno di 5 milioni e mezzo di indo-americani, e per il 66 per cento si tratta di immigrati, ma se ne vedono sempre di più in ruoli di leadership. Oggi, ci dicono i dati, tra le minoranze asiatiche è quella più attiva, sia in termini di voto,  sia in termini di candidature e partecipazione alla vita politica attiva. Basta osservare le elezioni locali che ci sono state a novembre. Zohran Mamdani, nato in Uganda da genitori della diaspora indiana, è diventato sindaco di New York (il padre è un importante professore che si occupa di post-colonialismo, la madre una regista diventata celebre per un film, “Mississippi Masala”, che racconta l’amore tra un afroamericano – Denzel Washington – e un’indo-americana). Ma oltre Mamdani, a inizio mese sono stati eletti anche Aftab Pureval e Ghazala Hashmi. Pureval si è assicurato di nuovo il posto di sindaco di Cincinnati, in Ohio, battendo il mezzo fratello di JD Vance. Ghazala invece, nata in India, è diventata vicegovernatrice della Virginia. Tutti e tre sono democratici e musulmani, e sembrano l’ennesimo segnale di questo rinascimento indiano (e secondo la destra estrema bannoniana, un avamposto dell’islamismo rampante). 

 

Quando a giugno del 2023 il primo ministro indiano Narendra Modi è arrivato in Campidoglio accolto da Joe Biden, nel suo discorso ha citato il “Samosa caucus”. “So che è la specialità della casa”, ha detto, e ha poi aggiunto: “Spero cresca sempre di più”. Il Samosa caucus è il nome informale del gruppo di deputati americani originari del sudest asiatico – le samosa, i triangolini fritti farciti, sono un po’ il cibo-simbolo del paese. Modi ha celebrato la visione americana di una “nazione di eguali”, capace di accogliere “gente di tutto il mondo”, rendendoli “partner nel sogno americano”. Perché, abbassando la cifra, ha ricordato che “ci sono tre milioni di persone qui che hanno origini indiane, e alcuni sono seduti orgogliosamente in questo emiciclo”. E’ un gruppetto numericamente piccolo quello alla Camera  – sono solo in sei – ma influente. Hanno fatto ottime scuole – Yale, Georgetown, Princeton, Harvard… – e prima della politica sono stati professionisti e imprenditori di successo. Spesso con genitori borghesi e a volte anche con un buon pedigree familiare intellettuale e avi coinvolti nell’indipendenza indiana. Sono tutti democratici, di prima o seconda generazione, vari i Californiani, e quasi tutti indù. Narendra Modi, girandosi durante il suo discorso, ha poi aggiunto: “Ce n’è una qui che ha fatto la storia”, e ha indicato Kamala Harris, allora vicepresidente. Harris è di madre indiana e padre giamaicano, e durante la sua breve e intensa campagna elettorale dopo il crollo di Biden, il mondo Maga l’ha presa in giro perché sembrava altalenare tra le origini asiatiche e quelle afro-caraibiche, in base all’audience. Ma se avesse battuto Donald Trump, sarebbe stata non solo la prima presidente donna, ma la prima di origini (anche) indiane. La rappresentanza asiatica al Congresso è quasi solo indiana. Ci sono giusto una senatrice giapponese delle Hawaii, un coreano di seconda generazione nato a Boston e una veterana della National Guard nata a Bangkok ed eletta al senato per l’Illinois, ma nessun “caucus del riso cantonese” o “gang del sushi”. 

 

 

In estate il New York Times aveva scritto che “gli indo-americani stanno diventando una forza politica” commentando l’influenza nella campagna elettorale della moglie dell’allora candidato, e ora vicepresidente, JD Vance. Perché Vance, elevato dalla sua roulotte dell’Ohio grazie ai soldi dell’Alt-Right e alla propaganda dei nazionalisti bianchi, ha sposato Usha Bala Chilukuri, nata a San Diego da immigrati dell’Andhra Pradesh. Se la mamma di Vance era una tossicodipendente sposata cinque volte e arrestata in varie occasioni, i genitori di Usha sono un prof di ingegneria meccanica e una prorettrice, esperta di biologia molecolare, all’università della California. Portare Usha sul palco poteva servire ad attirare il voto della sua comunità, tendenzialmente democratica. Lei stessa, almeno fino a dieci anni fa, era registrata dem per poi passare a fare campagna per il marito – ma tenendosi lontana dagli elogi a Trump e alle politiche anti-immigrazione. All’ultima convention del Gop, Usha ha scherzato sul fatto che il marito, “un tipo da carne-e-patate” ha “addirittura” imparato a cucinare indiano per la suocera. Vance, diventato cattolico nel 2019, ha detto a un recente evento per celebrare Charlie Kirk che spera che sua moglie si converta prima o poi, ma la second lady, cresciuta induista, dice che non ne ha alcuna intenzione, anche se accetta di mandare i figli a messa la domenica. 

 

Oltre a Usha, il fronte repubblicano-Maga, per identità apparentemente meno propenso alla mescolanza razziale o all’accoglienza, ha però tra le sue fila altri rappresentanti di questa minoranza asiatica in ascesa (che sta per superare numericamente quella cinese). Alle ultime primarie presidenziali repubblicane contro Trump c’erano due indo-americani importanti. Da una parte Nikki Haley, ex governatrice del South Carolina ed ex ambasciatrice all’Onu, ultimo baluardo filo-neo-con alle primarie prima che fosse chiara la supremazia Maga. Dall’altra Vivek Ramaswamy, imprenditore biotech miliardario (Yale e poi Harvard, padre ingegnere e madre medico universitario) legato inizialmente al Doge di Musk. Il quarantenne Ramaswamy ha appena lanciato la candidatura per il 2026 come governatore dell’Ohio. Un terzo indiano importante nell’ecosistema repubblicano è Bobby Jindal (Oxford e Ivy League), figlio di un ingegnere e di una fisica nucleare. Nato in Louisiana, di cui è stato governatore, ha lavorato da giovanissimo nell’amministrazione Bush per poi provare timidamente a lanciarsi nella corsa presidenziale del 2016. Sia Haley che Jindal, cresciuti induisti, si sono poi convertiti al cristianesimo.

 

 

Alla fine degli anni 50 negli Stati Uniti c’erano appena 12 mila indiani. Il grosso giunse dopo il ‘65, quando il presidente Johnson cambiò la legge sull’immigrazione che favoriva gli arrivi dai paesi occidentali. Molti, come i genitori dei vari politici, arrivarono per studiare, per specializzarsi soprattutto in materie scientifiche, e poi sempre di più negli ultimi decenni ne sono stati accolti ancora per via del boom del settore tech, sempre alla ricerca di ingegneri e programmatori di software. Secondo i boys della Silicon Valley le scuole indiane scientifiche preparano benissimo. Il 60 per cento degli indiani ora residenti in Usa sono arrivati dopo il 2000. Molti sono stati proprio prelevati dalle loro ottime università dalle aziende tech e portati, con stipendi d’oro, nella California del sud e nella baia di San Francisco. La questione su cui Musk e il gran visir Bannon (e quindi Trump) hanno litigato è legata alla quantità di lavoratori specializzati che le aziende americane possono accogliere senza troppi iter burocratici. Mentre Bannon difende le posizioni America First, Musk vorrebbe un via libera per portare nuovi smanettoni dall’Indian Institute of Technology di Madras. L’aumento dei numeri va in parallelo con un’immigrazione illegale dal sud-est asiatico, gente alla ricerca di lavori non specializzati che scavalca il confine messicano (al 2021 ci sono 725 mila indiani senza documenti negli Stati Uniti).

 

Le comunità più numerose, le Little Delhi, sono a New York, Los Angeles, San Francisco e nella macroarea texana tra Houston e Dallas. Ma ci sono gruppi sempre più folti in Georgia e in Illinois. In New Jersey c’è una piccola Mumbai, il quartiere di Journal Square, ormai noto ufficialmente come India Square, enclave piena di ristoranti specializzati in biryani e tandoori, vetrine colme di pane naan e pasticcini bengalesi, murales con le tigri, mandala dipinti sull’asfalto, templi indù e slarghi e sale da ballo dove si organizzano feste e parate e celebrazioni. Il successo indiano va oltre la politica, e oltre a qualche figura di comici hollywoodiani – da Mindy Kaling, star di The Office, a Aziz Ansari (travolto anche lui dal #MeToo) e si concentra nei vertici aziendali. Se Bangalore è considerata la Silicon Valley indiana, ormai anche quella originale, tra Palo Alto e Berkeley, è sempre più orientale. C’è Sundar Pichai, il ceo di Google, con uno stipendio da 280 milioni all’anno, che non è solo manager ma anche sviluppatore di software, nato nel Tamil Nadu. E poi Satya Nadella, ceo di Microsoft, nato sulle rive del fiume Musi, grande lettore di poesia e amante del cricket, anche lui ingegnere. E si aggiungono Ibm, Adobe e YouTube, tutti con amministratori delegati indiani. Si è passati dai nerd brufolosi Wasp cresciuti nei garage agli ambiziosi ingegneri del subcontinente con accento brit. “La saggezza indiana fluirà indietro verso l’Europa, e produrrà cambiamenti fondamentali nel nostro pensiero e nelle nostre conoscenze”, aveva già previsto Schopenhauer. Ed Elio e le Storie Tese cantavano: “India, India, quante volte ti ho vista sulla cartina e ti ho sottovalutata!”.

 

Questa crescente supremazia porta youtuber, razzisti e accademici a chiedersi come mai gli indiani abbiano così tanto successo in America, come mai arrivino sempre in cima. Si cercano risposte sociologiche, storiche, si fanno liste su Forbes degli indiani che guidano “la rivoluzione Ai”. Un video con quasi 5 milioni di visualizzazioni è intitolato “perché gli immigrati indiani diventano così ricchi e crescono figli di successo”, e in effetti quella indiana è la minoranza con il reddito medio annuo più alto: più di 150 mila dollari. Quella nazionale è di 83 mila, quella degli afroamericani è di 54 mila. Il 49 per cento degli indiani immigrati negli Stati Uniti ha un titolo di studio superiore alla laurea, contro il 13 per cento dei cittadini statunitensi. Secondo l’economista Shruti Rajagopalan i motivi principali del successo indiano sono due. Il primo è il buon sistema educativo nazionale, prima britannico e poi di Nehru, che porta “a elevare la crème”, a spingere all’eccellenza. Come se dal colonialismo di re Giorgio e poi dall’indipendenza neutralista e nazionalista fossero stati presi i lati migliori. Il secondo motivo risiede nella capacità di gestire situazioni sociali complesse, anche date le famiglie numerose, e cioè saper parlare con tutti e a tutti in modo diverso in base al loro ruolo gerarchico. “Parlo diverso con i miei genitori rispetto a come parlo ai miei nonni, o alla mia donna delle pulizie o al mio collega o al panettiere…”, ha spiegato in un podcast l’economista. E’ una struttura formale che in America esiste poco, dove le gerarchie sono molto confuse e possono cambiare da un momento all’altro, perché si basano solo sul denaro. Inoltre, nascere in un paese di lingua (anche) inglese aiuta a farsi largo nel mondo anglosassone, mentre si mantiene, però, un background spirituale-linguistico di una lingua regionale – oltre a un buon misto tra solide tradizioni valoriali e apertura, vista l’abitudine a un paese con un miliardo e mezzo di persone e altrettante divinità.

 

Ovviamente, visto il trionfo, ci sono sempre più nazionalisti bianchi infastiditi da questa minoranza: solo a ottobre il Centro per gli studi sull’odio organizzato ha riscontrato su X quasi 3 mila post di insulti razziali contro gli indiani. I troll dell’AltRight usano stereotipi sul mangiare cibo con le mani e sulle strade luride di Delhi e meme sui truffatori online, e allo stesso tempo accuse sul sistema delle caste, insulti che si palleggiano tra sporcizia e snobismo di classe, tutto mescolato con teorie sulla sostituzione etnica. Durante la calda campagna elettorale newyorkese anche il candidato indipendente ed ex governatore Andrew Cuomo è caduto nel tranello, postando sui social un video generato con l’intelligenza artificiale di Mamdani che mangia del riso con le mani sporcandosi tutto (il post è stato subito cancellato). Nel frattempo, però, Trump ha deciso di festeggiare il Diwali, che è un po’ il Natale indiano, alla Casa Bianca, circondato da donne in Sari e alzandosi per accendere le candele votive che rappresentano la luce contro le tenebre, conscio che questa minoranza così potente è meglio non alienarsela. Cristoforo Colombo, quando è partito per il suo famoso viaggio, pensava di accorciare la via per le Indie, ma ora sono gli indiani – quelli veri – a conquistare l’America.