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Sul vento trumpiano, l'America latina va a destra, a modo suo
Alla fine del 2025, nove dei 19 paesi della regione saranno governati dalla destra. Il centro sta scomparendo verso posizioni sempre più radicali. Il "voto de castigo" ma non solo
Città del Messico. Argentina, Bolivia, Paraguay, Perù, El Salvador, Ecuador, Panama, Costa Rica e (probabilmente) Cile: sono i paesi latinoamericani con governi di destra, nelle molte sfumature che questo campo politico assume a quelle latitudini – una regione che si perde nel criterio dell’unità, diceva Alain Roquier, patriarca della nostra nicchia latinoamericanista. Cercare elementi di unità è un esperimento ad alto rischio di fallimento, ma vale la pena capire se la regione sta vivendo una svolta a destra e che cosa rappresenta quel campo politico.
Alla fine del 2025, nove dei 19 paesi della regione saranno governati dalla destra. Sei di questi in seguito a vittorie della destra dall’opposizione, che confermano la volontà degli elettori di castigare i governi in carica, il voto de castigo, una tendenza di lungo periodo individuata dal centro studi conservatore Real Instituto Elcano. In tre casi, invece, la destra si riconferma al governo. Se due terzi dei casi si spiegano con il voto de castigo, è difficile parlare propriamente di una svolta, come fu per esempio quella a destra degli anni Novanta e poi a sinistra a inizio anni 2000. Ma qualcosa, al fondo, sta cambiando, come mostrano i casi di El Salvador, Ecuador, le recenti parlamentari in Argentina – tre casi in cui la destra al governo si rinsalda al potere – o il primo turno delle presidenziali in Cile, dove un voto su due è andato a destra. Uno studio sulla destra latinoamericana è tema da tesi di dottorato, qui ci concentriamo su tre dimensioni: relazioni internazionali; ordine sociale ed economia.
Miami, capitale dell’America latina
Sul piano delle relazioni internazionali, una vecchia frattura sinistra-destra nella regione riguarda l’unità latinoamericana contrapposta alla relazione preferenziale con gli Stati Uniti. Seppur con qualche differenza col passato e con significative differenze a destra (come il progetto Alleanza del Pacifico), è un criterio ancora valido. L’argentino Javier Milei, in linea col suo predecessore Carlos Menem – quello delle relazioni carnali con Washington – da quando si è insediato ha fatto 21 viaggi di stato, di cui undici in America. Il neopresidente boliviano Rodrigo Paz ha detto di voler normalizzare le relazioni con gli Stati Uniti, la leader dell’opposizione venezuelana María Corina Machado ha un canale diretto con gli Stati Uniti, Eduardo Bolsonaro viaggia spesso negli Stati Uniti in nome di un trait d’union tra trumpismo e bolsonarismo. Dagli Stati Uniti, e in particolare dal campo Maga, filtrano verso sud meme, bolle social, youtuber, video di Tucker Carlson e J. D. Vance, che germogliano poi in azioni reali, come la manifestazione di solidarietà per l’omicidio di Charles Kirk, organizzata a Lima dal sindaco della capitale peruviana, Rafael López-Aliaga, il “Bolsonaro peruviano”.
Gli Stati Uniti sono l’orizzonte dell’immaginario dei latinoamericani, ricordo due bambine indigene in Ecuador giocare tra loro e dire: “Adesso facciamo che siamo negli Stati Uniti”. Non sarà un caso se il presidente di quel paese, figlio della famiglia più ricca dell’Ecuador, sia nato a Miami, Florida, la città più ispanica del paese, capitale dell’America latina, come ha scritto Martín Caparrós, il luogo in cui molti, ricchi e poveri, dell’America latina sognano di arrivare. Da quando Trump è tornato alla Casa Bianca, l’attenzione è nuovamente ricambiata. L’America latina è al centro della mappa del dipartimento di stato, oggi diretto principalmente da latinos. Sembra un revival della “dottrina Monroe” che punta a ridurre la presenza cinese nella regione e spinge Washington a un forte attivismo – anche militare – in Venezuela, al sostegno al governo argentino, alla famiglia Bolsonaro, alle liti social e diplomatiche con la Colombia. Il buco nell’acqua del recente vertice Unione europea-Celac (la Comunità di stati latinoamericani e dei Caraibi) in Colombia è una prova della ritrovata centralità della Casa Bianca in America latina. Washington ha fatto pressione per disertare l’evento e così hanno risposto “assente” sia i presidenti di destra latinoamericani sia Ursula von der Leyen, dando una nuova prova del nanismo politico di Bruxelles.
Croce e spada
La bandiera della destra latinoamericana è la mano dura sulla sicurezza, tallone d’Achille per i progressisti e ambito in cui il salvadoregno Nayib Bukele è riferimento regionale. Bukele è riuscito a riportare l’ordine nel piccolo paese centroamericano, annichilendo il potere delle maras, i gruppi criminali che controllavano il territorio, grazie a una politica repressiva – oggi è il paese con la più alta percentuale di popolazione in carcere al mondo. Viene criticato per le violazioni dei diritti umani e gli arresti di innocenti, ma il risultato di ordine è innegabile ed efficacemente comunicato. Tant’è che oggi “facciamo come Bukele” è uno slogan nelle campagne elettorali di centrodestra e destra in Cile, Argentina, Bolivia e Honduras. In Cile, la criminalità è la preoccupazione principale e quasi la metà della popolazione si dice disposta a meno libertà in cambio di sicurezza, secondo i sondaggi Icso-Udp. Con queste premesse, non sorprende che il primo turno delle elezioni sia stato una primaria a destra e il favorito per diventare il prossimo inquilino della Moneda è José Antonio Kast, alla sua terza campagna presidenziale. Ex deputato che ha lasciato la tradizionale coalizione di destra per fondare nel 2019 il più conservatore Partito repubblicano, Kast è risultato il più credibile per rispondere alle preoccupazioni su sicurezza e migrazione.
L’altro aspetto che unisce questo eterogeneo campo politico è la religione (non il cattolicesimo). La croce è un simbolo usato nelle campagne politiche: nel 2020 l’autoproclamata presidente ad interim della Bolivia, Jeanine Áñez, si presentò con una Bibbia gigante alla cerimonia di insediamento: “Dio ha permesso alla Bibbia di rientrare nel Palazzo”, disse, in riferimento alla fine del governo socialista di Evo Morales. Tra i cristiani, l’amalgama più forte è quello evangelico: questi gruppi sono in ascesa, in alcuni casi, come in Guatemala, hanno superato i cattolici, e sono attori politici rilevanti. Sono gli alfieri della cosiddetta battaglia culturale contro l’agenda dei diritti civili, aborto, politiche di genere, educazione sessuale, liberalizzazione delle droghe leggere, politiche per minoranze etniche.
“Croce e spada” è l’immagine utilizzata dal costituzionalista argentino Roberto Gargarella per descrivere la tradizione costituzionale conservatrice latinoamericana di inizio Ottocento, quando le élite locali si misuravano con il problema di adottare testi costituzionali per i neostati indipendenti dalla corona spagnola, la croce cristiana rappresentava un ordine sociale definito, la cui stabilità doveva difendersi con l’uso della forza. Due secoli dopo, è un’immagine ancora valida per descrivere il cangiante campo politico conservatore latinoamericano.
Si chiama mercato, è bravissimo
Sul piano economico, gli indicatori sono un invito alla tristezza. Le ricette economiche del progressismo latinoamericano durante il suo momentum tra il 2005 e il 2015 – a parte la significativa eccezione del Brasile – hanno avuto risultati passeggeri in termini di crescita inclusiva e sostenuta. Finita l’alta marea delle materie prime, si è tornati a tassi di crescita deprimenti. I governi di destra hanno parzialmente smantellato le politiche economiche e sociali del ciclo progressista, ma il loro successo si innesta non tanto su una politica specifica quanto sulla capacità di intercettare una tendenza sociologica profonda. “Dalla pandemia si sono accelerati i processi di individualizzazione contrapposti a quelli collettivi”, spiega Ernesto Bohoslavsky, ricercatore presso il Cnrs in Francia: “Diversi studi sui sistemi di valori dei lavoratori informali nelle capitali latinoamericane mostrano come per questi gruppi siano più rilevanti valori come le capacità personali, la creatività autoimprenditoriale, il merito individuale, contrapposti a idee comunitarie che promuovono gli aiuti statali per gruppi marginali. Essi aspirano a una divisione sociale in cui ciascuno occupi il posto che merita, vogliono ordine nel mercato, nelle strade e in casa. Sono studi interessanti che eliminano una certa visione romantica associata al popolo”, conclude Bohoslavsky.
A riprova di questa tesi, c’è lo slogan “capitalismo per tutti” che ha portato alla vittoria di Paz in Bolivia, interrompendo il ciclo ventennale dei governi del Movimento al socialismo. E anche in Brasile, gli evangelici – base elettorale di Bolsonaro – hanno definito la loro una teologia della prosperità. Ci si appella a Dio in cerca della prosperità economica, è un Dio che opera qui e ora, senza rimandare l’appuntamento all’aldilà, contrariamente al Dio dei cattolici. I problemi che vivono le persone sono individuali e anche le soluzioni, la ricchezza arriva per iniziativa personale e per la volontà di Dio. Sulle politiche economiche per rispondere alle domande sociali segnalate da Bohoslavsky, invece si notano più differenze che similitudini. Si passa dall’iperliberismo di Milei, “Reagan a Buenos Aires” ha scritto Luciano Capone su questo giornale, a ricette più moderate di convivenza tra intervento statale e mercato. E a ben vedere, queste ultime sono le più diffuse: Kast in Cile propone uno stato per regolare e sussidiare – ben lontano dall’agenda economica iperliberista di Pinochet, a cui dice ispirarsi – simile all’agenda del presidente boliviano Paz o del governo conservatore uruguaiano (2020-2025).
Davvero si va a destra?
Dentro questa destra di nuovo conio ci sono differenze strutturali, “mobili diversi che arredano lo stesso salotto”, dice Bohoslavsky, e tendenze comuni. Denominatore comune è la scomparsa del centro e lo spostamento verso posizioni più radicali: i presidenti latinoamericani oggi sono più Milei, Bolsonaro e, probabilmente, Kast, e sempre meno Fernando Henrique Cardoso, Mauricio Macri e Sebastián Piñera. Una vittoria di Kast in Cile il prossimo 14 dicembre rafforzerebbe questa destra di nuovo conio. La quale, cogliendo il vento trumpiano, potrebbe trasformare l’ennesimo voto de castigo in un cambiamento politico strutturale nella regione.