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quale pace?

Putin vuole arrivare a Kyiv. Gli obiettivi del bluff sul “piano di pace”

Nona Mikhelidze

Mentre Trump alterna pressioni, incertezze e aperture verso Mosca, l’Ucraina combatte non solo sul campo ma per restare agganciata al suo alleato chiave: perché senza Washington – e senza un’Europa pronta a colmare il vuoto – ogni trattativa rischia di trasformarsi nella resa ucraina

L’equilibrio strategico dell’Ucraina resta appeso agli umori di Washington. E’ questa la verità spiacevole con cui Kyiv deve fare i conti mentre il sostegno americano vacilla per l’ennesima volta, a quasi quattro anni dall’invasione su larga scala russa. Nella capitale ormai lo si dice senza cautela: “Ammettiamolo, Washington non è più il nostro alleato. Il massimo a cui possiamo aspirare oggi è che l’Amministrazione del presidente Trump resti neutrale e continui a venderci armi, direttamente e tramite gli europei”.

Eppure, finché l’aiuto americano resta indispensabile per la difesa aerea contro gli attacchi missilistici quotidiani russi, il presidente ucraino Volodymyr Zelensky non ha alternativa: deve mantenere un rapporto collaborativo con Trump e con un entourage che negli ultimi mesi si è rivelato incompetente e facilmente manipolabile da Mosca.

Da qui una sequenza di crisi nei rapporti tra Stati Uniti e Ucraina: dallo scontro tra Donald Trump e Zelensky alla Casa Bianca, al duro negoziato sull’accordo sui minerali – durante il quale Washington ha persino minacciato Kyiv, pur di ottenere la firma di una prima bozza di natura coloniale, che avrebbe concesso agli Stati Uniti l’estrazione di risorse ucraine senza fornire le garanzie di sicurezza richieste da Kyiv – fino al vertice tra Stati Uniti e Russia in Alaska, con l’accoglienza riservata a Vladimir Putin: il tappeto rosso.

Per gli ucraini, ogni episodio è stato vissuto come un colpo in più, mentre il paese combatte su più fronti: resistere al nemico, piangere i caduti, sopravvivere agli attacchi che devastano la vita quotidiana. Eppure, in tutti e tre i casi, Kyiv – anche grazie al sostegno europeo – è riuscita a evitare le trappole e a mantenere Washington almeno su una posizione non ostile, contrariamente a quanto avrebbe sperato Mosca, che auspica una rottura definitiva tra gli Stati Uniti e l’Ucraina.

Zelensky ha ricucito il rapporto con Trump dopo il primo scontro; l’accordo sui minerali è stato rinegoziato fino a svuotarne quasi del tutto il significato originario; e dopo il vertice tra Trump e Putin in Alaska, Kyiv è riuscita a far comprendere agli americani – complice anche l’intransigenza del Cremlino, che continuava a esigere condizioni massimaliste – che il vero sabotatore della pace era Putin, non l’Ucraina. Da lì sono arrivate le prime sanzioni dell’Amministrazione Trump contro la Russia, che hanno colpito i giganti petroliferi Rosneft e Lukoil.

In Europa qualcuno ha intravisto un possibile cambio di rotta: forse Trump aveva capito che Putin vuole continuare la guerra, e che l’unico modo per costringerlo al tavolo negoziale era aumentare la pressione sul Cremlino, non sull’Ucraina. Ma la speranza è svanita presto. L’inviato speciale di Trump, Steven Witkoff, non ha mai smesso di interagire con emissari russi per “trovare una bozza di pace”. E i russi gli hanno fatto recapitare un documento in 28 punti – scritto originariamente in russo e solo successivamente tradotto in inglese – che propone, di fatto, la resa dell’Ucraina. Molto è già stato scritto sui contenuti del piano, e non serve un’analisi punto per punto. Non perché non sia utile mostrare come esso vìoli tredici trattati vincolanti, ventitré impegni politici e trentacinque princìpi giuridici radicati nella Carta delle Nazioni Unite, nell’Atto finale di Helsinki dell’Osce, nelle Convenzioni di Ginevra e in un vasto insieme di documenti che costituiscono i pilastri dell’ordine globale costruito dopo la Seconda guerra mondiale. Ma perché il nocciolo è semplice: il piano è destinato a fallire per ragioni strutturali. Anche qualora contenesse elementi ragionevoli o vaghe garanzie di sicurezza per l’Ucraina, include due punti che lo rendono intrinsecamente inaccettabile per Kyiv – e la cui modifica lo renderebbe automaticamente inaccettabile per Mosca. E così tutti gli altri ventisei punti diventano semplice rumore di fondo.

Il primo riguarda la cessione di parte della regione di Donetsk, che i russi non sono riusciti a conquistare in quattro – anzi, undici – anni di guerra. Il secondo, il quasi dimezzamento delle Forze armate ucraine. Nessun presidente ucraino potrebbe firmare un accordo simile. Né il Parlamento né l’esercito lo sosterrebbero, per almeno tre ragioni fondamentali. Primo: sul piano tecnico-legale, il presidente non ha l’autorità per cedere territori – servirebbe un referendum. Secondo: circa 200 mila cittadini ucraini vivono nelle zone di Donetsk ancora sotto controllo di Kyiv. Il governo cosa dovrebbe dir loro? Diventate rifugiati? Sottomettetevi all’occupazione russa? E questo dopo che le occupazioni russe hanno mostrato la loro natura: torture, annientamento culturale, arruolamenti forzati, deportazioni di bambini. Ma c’è una terza ragione, ancora più strategica: su quel territorio si trova la principale fortezza militare costruita dall’Ucraina dal 2014 dopo la prima invasione russa, un sistema articolato di trincee, cunicoli chilometrici, tunnel e sottopassaggi. E’ la linea che difende il resto del paese. Se cadesse in mano russa, il percorso verso il cuore dell’Ucraina diventerebbe estremamente più semplice.

Il secondo punto non negoziabile riguarda l’esercito ucraino. In questi quattro anni di guerra – anzi undici, dal 2014 – gli ucraini hanno imparato che l’unica vera garanzia di sicurezza sono le loro forze armate. Dal veto di Barack Obama sulla vendita di armi letali, alle difficoltà nel far approvare all’Europa anche soltanto alcune sanzioni contro Mosca nel 2014, fino alla frustrazione di fronte ai nuovi progetti occidentali con la Russia, come il Nord Stream 2, gli ucraini hanno compreso che la loro sopravvivenza dipende da loro stessi. Questa convinzione si è rafforzata dopo il 2022, con l’invasione russa su larga scala. In questi quattro anni gli ucraini non solo hanno dovuto resistere sul campo, ma hanno dovuto anche elemosinare dall’occidente munizioni e sistemi di difesa aerea per proteggere i civili. Con lo sviluppo massiccio della produzione militare – droni, missili a lungo raggio, e una resilienza delle truppe senza pari in Europa – molti ucraini sono arrivati a credere che non sia Kyiv ad aver bisogno della Nato, ma l’Alleanza atlantica ad aver bisogno di loro, visto che l’esercito ucraino è oggi quello con più esperienza di combattimento in Europa. E in una Nato indebolita da Trump, che forse non garantirebbe nemmeno la sicurezza dei Paesi Baltici, Kyiv non riporrebbe comunque piena fiducia.

L’esercito ucraino è oggi l’istituzione più apprezzata e affidabile secondo tutti i sondaggi nazionali. Qualsiasi limite imposto alle Forze armate o all’industria bellica sarebbe respinto, anche al costo di combattere fino all’ultimo soldato: per molti ucraini, un esercito indebolito equivale alla fine dello stato.

Per questo Kyiv e i partner europei cercheranno ora, nel fragile ramo di negoziati aperto con gli Stati Uniti, di convincere Washington a eliminare quei due punti dal cosiddetto “piano di pace”. Nelle varie controproposte europee circolate in questi giorni, una prevede di limitare le forze armate ucraine a 800 mila soldati in tempo di pace. Anche se Kyiv accettasse questa clausola, il Cremlino non la percepirebbe come una concessione, dato che il numero attuale dei militari ucraini si aggira comunque intorno a quella cifra.

Quanto alla modifica dei punti del piano che riguardano le garanzie di sicurezza, la dinamica è identica a quella dei mesi scorsi: si sono rivelati inutili sia i dibattiti sul possibile dispiegamento di peacekeepers europei sia quelli su quali paesi potessero fornire quali risorse. Oggi come allora, perdersi nei dettagli è privo di senso: qualsiasi clausola favorevole all’Ucraina è, per definizione, inaccettabile per Mosca, che resta determinata a proseguire la guerra.

Resta allora una domanda cruciale: perché il Cremlino ha sottoposto agli americani un piano già irrealizzabile? Non certo per raggiungere la pace. L’obiettivo è avviare un processo che provochi una rottura definitiva tra Stati Uniti e Ucraina, e al tempo stesso tra Stati Uniti ed Europa. Una frattura che, a cascata, indebolirebbe la coesione interna europea e comprometterebbe gli aiuti militari a Kyiv. Mosca spera di isolare Kyiv, ridurre o interrompere gli aiuti occidentali e trovare l’Ucraina sola sul campo di battaglia – per tentare finalmente il suo obiettivo finale: la conquista di Kyiv.

Nei prossimi giorni si vedrà se Ucraina ed Europa riusciranno a sottrarsi a questa trappola. E anche se ci riuscissero, rimarrebbe comunque il grande problema Trump, che gli europei dovranno affrontare direttamente: assumersi la piena responsabilità nel sostegno di Kyiv, scongelando finalmente gli asset russi e investendo massicciamente nelle Forze armate ucraine – e quindi nella difesa dell’intero continente europeo.

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