Dicembre 2023, Daniel Hagari all’imboccatura di un tunnel di Hamas nel nord della Striscia di Gaza (Getty Images) 

Memorie di un portavoce

Hagari ci ha messo la faccia. Intervista esclusiva all'ex portavoce dell'esercito di Israele

Micol Flammini

“Non sapevamo se Hezbollah e l’Iran si sarebbero uniti a Hamas. A un certo punto ho scoperto che anche gli ostaggi a Gaza ascoltavano i miei messaggi, dovevo parlare anche a loro”. Le strategie di comunicazione dopo il 7 ottobre, la necessità di restaurare la fiducia fra civili ed esercito, le risposte alle accuse della comunità internazionale

È quasi irriconoscibile senza divisa. Dal 7 ottobre sembrava che gli fosse stata cucita addosso, che l’esercito di Israele avesse la sua faccia e parlasse con la sua voce. Oggi il contrammiraglio Daniel Hagari non indossa più la mimetica, ma per molti è rimasto il volto e la voce di Tsahal. Appena apre bocca è possibile riconoscerlo, sembra di tornare ai primi mesi di guerra, quando Israele attendeva le sue parole per sapere, capire, chiarire. “Non provengo dall’ambiente della comunicazione. Trent’anni fa volevo essere un combattente, e lo sono diventato. Poi volevo essere un ufficiale, poi un comandante e ho comandato la Flottiglia 13 (l’unità d’élite Shayetet 13 della Marina israeliana). Era quello che volevo fare e ho coronato il mio sogno diventando capo della direzione operativa della Marina israeliana”, racconta al Foglio, elencando le tappe del percorso inaspettato che lo hanno portato a diventare il portavoce di Tsahal nel momento più difficile della storia di Israele.

     

Hagari era un operativo, con le parole e la comunicazione aveva poco a che fare e quando l’ex capo di stato maggiore (in ebraico ramatkal), Herzi Halevi, gli propose di diventare il suo portavoce, l’offerta gli parve bizzarra. “‘Perché io?’, gli ho domandato. Non vengo dall’ambiente dei media”, Hagari racconta l’offerta di Halevi ancora con grande stupore, quasi che tuttora sia  alla ricerca delle ragioni più profonde che condussero il generale a volerlo per quella carica che avrebbe segnato la sua storia e quella del suo paese. Il ramatkal fornì una spiegazione molto dettagliata, voleva fare una piccola rivoluzione: “Mi ha detto: ‘sei un combattente, un comandante. I soldati entreranno in sintonia con te. Tu puoi essere la loro voce’”. Non poteva sapere che si sarebbe trasformato nella voce di un paese intero. Dopo l’offerta del generale Halevi, Hagari si consultò con sua moglie, poco convinta che fosse il posto giusto per un tipo poco ciarliero come lui. Chiese a un amico con esperienza nel campo della comunicazione, che gli disse che forse il suo modo di parlare lento sarebbe potuto essere efficace per la radio, ma non molto per la televisione. Alla fine, Hagari decise di accettare: “Ho pensato che sarebbe stato importante, avrei svolto un servizio necessario per il mio paese”. Il 29 marzo del 2023, Daniel Hagari entrò in servizio come portavoce, nel suo primo discorso pubblico disse: “La missione dell’unità del portavoce dell’Idf (acronimo per Forze di difesa di Israele) è rafforzare la fiducia del pubblico nell’esercito e nella sua legittimità internazionale. Quando penso alla condizione più importante per ottenere la fiducia del pubblico, mi viene in mente una sola parola: credibilità. Credibilità significa fiducia, internamente ed esternamente, affinché possiamo essere un’organizzazione esemplare”. Il discorso non fu lungo, ma Hagari delineò con precisione quali sarebbero state le linee guida della sua missione: mantenere il consenso nazionale attorno all’esercito, tenere la politica fuori dall’esercito, libertà di stampa, chiarezza dentro Israele e con il mondo. “Siamo un’organizzazione che appartiene allo stato, a ogni civile e, naturalmente, a ogni madre e padre che ha mandato i propri figli e figlie nell’esercito”, poi aggiunse: “Presumo che chiunque venga nominato portavoce sia certo di iniziare l’incarico in uno dei periodi più tumultuosi e delicati per l’esercito. In questo senso probabilmente non sono diverso”. Era molto diverso, completamente diverso. Il suo breve discorso inaugurale era incentrato sulla fiducia e Hagari non avrebbe potuto sapere che quella fiducia il 7 ottobre sarebbe stata ferita fino a ricevere un colpo quasi mortale e sarebbe spettato a lui rianimarla. Proprio la fiducia e la necessità di restaurarla sarebbero diventate l’elemento principale dei suoi discorsi quotidiani, dei suoi appuntamenti davanti alle telecamere per raccontare prima i dettagli del massacro di Hamas e poi l’evoluzione della guerra su più fronti. 

 

Il 7 ottobre di due anni fa, Hagari era in vacanza come la maggior parte dei suoi concittadini, aveva scelto di andare  con sua moglie e i suoi quattro figli in un kibbutz vicino Eilat. Venne svegliato alle 6.29 da una telefonata. Uno dei suoi ufficiali gli disse di guardare sul telefono cosa stava accadendo. Cominciavano ad apparire i primi video dei terroristi. Hagari uscì di casa, senza sapere quando sarebbe potuto tornare dalla sua famiglia, prese la macchina, iniziò a risalire il paese guidando “come un pazzo, vedevo i missili cadere. Ho capito la portata di quello che stava accadendo”. Nel primo video girato il 7 ottobre, Hagari disse agli israeliani che il paese si trovava in una situazione di guerra, era impossibile in quel momento sapere chi si sarebbe unito a Hamas. “Ho iniziato a rilasciare interviste, ne ho fatte undici in televisione. Dopo mi sono reso conto che non avevo tempo per continuare così, dovevo avere il quadro generale, capire cosa stava veramente succedendo, non avrei potuto dare informazioni, comunicare, se io stesso non sapevo quale fosse la situazione. Mi chiedevano se ci fossero ostaggi, quanti fossero. Non lo sapevamo neanche noi. Mi sono reso conto che non avevo tempo, dovevo avere una comprensione totale”. E’ nata una regola non scritta nella sua squadra: “fare, fare, fare”. Così l’unità del portavoce dell’esercito ha stabilito la sua routine di comunicazione. 

 

Hagari ripete spesso che il portavoce non era lui, ma  un’intera unità che prima dell’attacco di Hamas contava seicentocinquanta persone. “Abbiamo deciso di raddoppiare l’unità. Abbiamo rafforzato la parte internazionale, cercando persone che parlassero farsi, turco e altre lingue. Dovevamo creare il meccanismo giusto. Ho chiesto anche agli ex portavoce di unirsi. Abbiamo aperto una stanza sotto terra, per poter lavorare e  andare in onda anche durante un attacco. Poi avevamo bisogno di recarci sul campo di battaglia per capire”. I video di Hagari dentro Gaza o in Libano, quando iniziò l’offensiva contro Hezbollah, erano seguiti dalla stampa internazionale e dagli israeliani. Il portavoce non era più soltanto il volto o la voce di un paese, ma era diventato anche gli occhi: andava nei tunnel di Hamas per mostrare cosa avevano costruito i terroristi, “ho visto i piani avevano formulato negli anni. Intere città sotterranee che si snodano fra quartieri residenziali, ospedali, asili, strutture dell’Unrwa”, l’Agenzia della Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi che, per i legami tra alcuni suoi dipendenti e l’organizzazione terroristica, è stata esclusa dai progetti per la ricostruzione della Striscia. “Quando trovi in un tunnel le gabbie per tenere in prigionia gli ostaggi, capisci che il 7 ottobre non era certo stato organizzato un mese prima”, spiega Hagari. Mostrare che l’attacco contro i kibbutz era un piano elaborato con dedizione, ferocia e pazienza, farlo vedere anche al pubblico internazionale, era uno dei punti principali della sua missione. 

   
La costruzione del sistema di Hamas dentro all’ospedale al Shifa è forse una delle scoperte che Hagari ha voluto raccontare al mondo con maggiore urgenza. Il complesso nella città di Gaza aveva un totale di ottocento posti letto, è stato al centro di pesanti scontri fra l’esercito israeliano e i terroristi. I combattimenti e le irruzioni nella struttura sono costate a Tsahal la condanna internazionale. Il personale medico che lavorava all’interno ha parlato di pazienti e medici colpiti dai soldati, fra testimoni e alcune agenzie internazionali, nessuno ha ammesso la presenza dei terroristi. Le prove che ha presentato Hagari raccontavano una storia molto diversa: “Mi aspettavo che sotto all’ospedale al Shifa avremmo trovato un bunker – già nel 2009, Israele era al corrente della presenza di nascondigli sotto alla struttura in cui si rifugiavano i capi di Hamas – Abbiamo trovato molto di più: tunnel per entrare e uscire senza essere visti, stanze di controllo dei terroristi in vari reparti. I terroristi entravano nelle stanze dell’ospedale, si cambiavano e dal reparto gestivano gli attacchi. Abbiamo trovato una mappa che mostrava chi si trovava dove, chi gestiva cosa e da quale stanza. A novembre del 2023, abbiamo lasciato l’ospedale in seguito al primo accordo per la liberazione degli ostaggi. Poi il capo dell’organizzazione, Yahya Sinwar, ha rotto il cessate il fuoco e siamo tornati a combattere”. Il capo di Hamas acconsentì a liberare una parte delle donne e dei bambini rapiti il 7 ottobre, ebbe in cambio una tregua e la scarcerazione di detenuti palestinesi dalle carceri israeliane. Ricominciò gli attacchi prima di rimettere in libertà tutte le donne e i bambini, “i terroristi tornarono all’ospedale al Shifa, rientrarono ai loro posti di comando che avevamo scoperto nella struttura e ricominciarono a coordinare gli attacchi”. Tsahal fece di nuovo irruzione per arrestare gli uomini del gruppo, venne accusato di aver puntato tanto ai pazienti, al personale medico, quanto ai terroristi, senza distinzioni. Secondo i numeri dell’esercito, invece, dentro l’ospedale operavano i terroristi, almeno trecento sono stati arrestati. “Dentro lo Shifa ho capito la portata del fenomeno, la capacità di Hamas di usare qualsiasi struttura come scudo”, racconta Hagari. Nel mezzo della condanna internazionale, non era semplice spiegare al mondo perché Israele operava dentro un ospedale così grande. Anche oggi, davanti alle prove, prevale la condanna, “ho portato i giornalisti internazionali dentro la struttura, ho privilegiato la stampa estera proprio per comunicare al mondo. Era importante spiegare la filosofia e la strategia di Hamas”. 

  
Dopo il 7 ottobre, si sono intrecciate le guerre sul campo di battaglia e la guerra della propaganda, Hagari sostiene che portare i giornalisti nella Striscia, mostrare le prove, è stato fondamentale, “anche se non ha cambiato la narrazione, almeno l’ha resa più bilanciata, ho mostrato la nostra parte”. Contemporaneamente, nei giorni dell’emergenza, procedendo per tentativi e seguendo l’imperativo “fare, fare, fare”, si è reso conto di doversi rivolgere simultaneamente a diversi tipi di pubblico allo stesso tempo. Era impossibile scegliere quale privilegiare, ma fra tutti ne aveva sempre uno in mente: gli israeliani. “Il 7 ottobre, il pubblico a cui mi stavo rivolgendo, erano gli israeliani perché eravamo tutti sotto attacco. Era a loro che dovevano dare informazioni, comunicare   un senso di controllo della situazione. Mostrare cosa stava accadendo e cosa avremmo fatto dopo. Allo stesso tempo, però, dovevo rivolgermi alla comunità internazionale, dicendo che eravamo in guerra, eravamo stati attaccati. Era necessario per legittimare le nostre azioni agli occhi del mondo. Non era finita qui, perché dovevano lanciare dei messaggi anche a tutti i nostri nemici, non soltanto a Hamas. Dovevamo scoraggiarli, perché non sapevamo se Hezbollah avrebbe attaccato, se l’Iran si sarebbe unito. Non potevano saperlo né il 7 ottobre, né l’8, né il 9 ottobre. Ci stavamo preparando a un attacco simultaneo da tutte le parti. Quindi il mio messaggio doveva essere anche di deterrenza, piena prontezza. Tutti coloro che combattevano contro Israele dovevano sapere che, se si fossero uniti a Hamas, avrebbero pagato un prezzo molto alto”. Controllo, legittimità, deterrenza. Da tre – Israele, il mondo, i nemici – i pubblici a cui si rivolgeva Hagari hanno iniziato a diventare più numerosi man mano che il conflitto procedeva. “Poi ho capito che mi stavano ascoltando anche gli ebrei nella diaspora, che si sentivano sotto attacco e chiedevano cosa ne sarebbe stato di loro, se l’aggressione di Hamas avesse  spinto altri gruppi islamisti in giro per il mondo a fare lo stesso”. Al pubblico si aggiunsero anche gli ostaggi. “Venni a scoprire che a volte anche loro ascoltavano i miei messaggi e dovevano sapere che avremmo fatto di tutto per riportarli a casa. A loro dovevo dare speranza. Quando cinque pubblici diversi si intersecano, i messaggi fra loro creano tensioni”. Hagari insiste nel sottolineare che non esiste un manuale di comunicazione, non esistono precedenti giusti, esistono i tentativi, esiste il tempo trascorso a “fare, fare, fare” e trovare la strategia giusta. “Devi pensare molto attentamente alle parole, ai termini che usi, devi specificare quando ti rivolgi a un pubblico in particolare. A volte ho detto: ‘ostaggi, se mi state ascoltando, voglio che sappiate..”. Oppure quando parlavo a Hezbollah: ‘Sto avvertendo Hezbollah, se vi unirete, noi…’. I messaggi a volte andavo incorniciati e spediti. Per ogni messaggio ci volevano toni e parole diverse”. 

   
Seguendo il conflitto, gli israeliani sono spesso apparsi poco interessati a cosa il mondo pensasse di loro. Un senso di sfiducia e isolamento, uniti alla convinzione che tanto non sarebbero stati creduti da un’opinione pubblica vista come ostile a prescindere, sembrano aver lasciato poco spazio alla cura della comunicazione. Per Hagari non è così, riconosce di essersi focalizzato molto sui messaggi agli israeliani, per una ragione ben precisa: “Io sono stato il portavoce dell’Idf e la missione della mia unità è molto chiara: aumentare la fiducia del pubblico dell’esercito, legittimare le azioni davanti alla comunità internazionale, scoraggiare il nemico. Il compito principale però è stato ricostruire la fiducia nelle Forze di difesa di Israele, che sono l’esercito del popolo. I genitori mandano i loro figli, i riservisti lasciano studi, lavoro e famiglia, sacrificano la vita. Questo è possibile soltanto se c’è fiducia, ma il 7 ottobre la fiducia si è persa. L’esercito non era lì quanto avrebbe dovuto per difendere i cittadini. Dovevo lottare per ricostruire fiducia e credibilità”. 

   
Per gli israeliani il 7 ottobre non è iniziata una guerra soltanto contro Hamas, ma un conflitto combattuto su sette fronti, contro Hezbollah, l’Iran, gli houthi, il terrorismo in Cisgiordania, le milizie sciite in Siria e in Iraq. E poi c’è stato l’ottavo fronte, la guerra mediatica, nel quale lo stesso Hamas si è dimostrato molto preparato. Hagari spiega di aver dovuto cambiare molte cose nella comunicazione, di aver capito che l’informazione si muove ormai su tre binari: i media tradizionali, i social e l’intelligenza artificiale. La guerra sui social è sfuggita di mano, Hagari da capo di un’unità di élite della Marina non aveva mai usato Instagram, ma si è dovuto adattare, ha capito l'importanza di messaggi brevi, dell’immagine rapida, di trenta secondi di video girato in un tunnel. Forse è questa la guerra che Israele ha perso: quella sui social. “Dobbiamo migliorare molto sui social per determinare la percezione futura”, ma è sull’intelligenza artificiale che  il contrammiraglio insiste di più: “Quando tra dieci anni chiederanno a un ragazzino di scrivere un tema sul 7 ottobre, allora il ragazzino andrà a cercare informazioni su ChatGpt, o qualsiasi cosa ci sarà fra dieci anni. E lì potrà leggere o che il 7 ottobre è stato il più grande massacro di ebrei dai tempi dell’Olocausto, o un grande atto di resistenza dal fiume al mare. Tutto dipende dai dati, dalle fonti che finiscono nell’IA, se al ragazzo che deve scrivere il tema verranno mostrate informazioni prese da Al Jazeera o da una testata che ha svolto ricerche o approfondimenti. E’ una questione di dati e dobbiamo intervenire, pensarci in tempo, perché sarà così che verrà scritta la storia del 7 ottobre nella testa dei ragazzi, sarà così che si evolverà la percezione di Hamas”.  Hagari prende il telefono e prova a fare la ricerca all’istante: il risultato è già piuttosto confuso. 

  

Il contrammiraglio Daniel Hagari ha lasciato il suo ruolo a marzo di quest’anno, è stato richiamato durante la guerra dei Dodici giorni contro la Repubblica islamica dell’Iran per aiutare la sua unità e il nuovo portavoce, Effie Defrin. Racconta che quei giorni per lui sono stati importanti. Hagari ha portato molti cambiamenti nella comunicazione, sottolinea che tutto è stato un’idea della sua unità, un lavoro di squadra. Le comunicazioni quotidiane con le mappe, il modo di gesticolare, parlare, le accuse esterne e interne, hanno segnato un momento dell’immagine di Israele nel mondo e dell’immagine che Israele aveva di se stesso, tra controversie, speranze e paure. Hagari ripete spesso che è tutta una questione di fiducia e credibilità e questi due elementi determineranno anche il futuro  dell’esercito: “Non possiamo più permetterci di avere terroristi alle frontiere, serve più forza ai confini. Abbiamo imparato molto, combattendo contro Hamas, Hezbollah, contro l’Iran. Abbiamo migliorato le capacità di intelligence, e di difesa, dell’attacco”. Non vuole parlare di politica ma, da militare, ha un’idea molto chiara sulla legge per imporre  la leva obbligatoria anche agli studenti haredim. Una norma considerata urgente dall’esercito, che fa litigare maggioranza e opposizione e riguarda molto la popolazione, fino a essere una questione esistenziale: “Serve una legge, l’Idf è l’esercito del popolo, è giusto che tutti siano al servizio. Si sta costruendo una brigata haredim, ma non basta”. 

   

A Roma Hagari ha partecipato a un’iniziativa di Keren Hayesod, per raccogliere fondi per la ricostruzione della società israeliana. Il contrammiraglio  ha finito la sua carriera nell’esercito dopo oltre trent’anni, “per la prima volta nella mia vita da quando ho diciotto anni non sono più in servizio”. E’ strano, dice. “L’urgenza di fare qualcosa per il mio paese è  ancora molto forte. Devo  capire qual è la strada giusta. Per ora ho una certezza: mi occupo della logistica della nostra famiglia con quattro figli”.  Mentre parla, sembra di vederlo durante uno dei suoi briefing quotidiani, gesticola molto, ha un linguaggio poco convenzionale per un portavoce dell’esercito. Il suo volto rimane scolpito in questi anni di guerra, la sua voce in quella di infiniti comunicati. Le sue frasi hanno fatto la storia dal 7 ottobre. La deterrenza con i nemici ha avuto effetto, gli ostaggi hanno detto che ascoltare le sue parole li ha aiutati a non sentirsi abbandonati, gli ebrei della diaspora lo ringraziano per il suo servizio: tre dei pubblici ai quali si rivolgeva hanno recepito i suoi messaggi con chiarezza. Ma il mondo ha condannato più volte le azioni dell’esercito israeliano e, riguardo alla fiducia di Israele nei confronti dell’Idf, è un capitolo che si sta scrivendo ancora oggi. E’ presto per i bilanci, la storia delle guerre si fa a distanza di anni e anche per questo non esiste un manuale. 

 

  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)