La Silicon in armi. Per non “amare la Bomba” secondo Alex Karp c'è un solo modo: dominare le armi con l'AI

Maurizio Crippa

La Valley e la nuova forza. “La Repubblica Tecnologica” di Karp e Zamiska, rispettivamente ceo e responsabile degli affari istituzionali di Palantir Technologies: il potere americano basato sull’alleanza di scienza e politica

“Nuovi Dottor Stranamore si affacciano all’orizzonte con la pretesa che si debba amare la Bomba”, ha detto il presidente Mattarella nel suo discorso al Bundestag, evocando un’icona potente della critica antimilitarista del Novecento. Non “amare la Bomba” è un forte monito morale in un momento storico in cui, invece, l’arma atomica è tornata a essere moneta del discorso politico. È un obiettivo che data da ottant’anni, ma va guardato senza infingimenti. Ad esempio capovolgendo la prospettiva. Gesto non per forza rassicurante, ma senza dubbio realistico: “L’èra atomica sta per finire. Questo è il secolo del software e le guerre decisive di domani saranno guidate dall’intelligenza artificiale”. L’epoca della deterrenza atomica potrà essere archiviata, scrivono Alex C. Karp e Nicholas W. Zamiska in “La Repubblica Tecnologica”, ma non in nome di un disarmo etico, bensì perché la nuova deterrenza sarà nelle mani di chi avrà il controllo delle armi basate sull’AI.

  
“Gli Stati Uniti e i loro alleati esteri dovrebbero adoperarsi senza indugio a lanciare un nuovo progetto Manhattan per mantenere il controllo esclusivo delle forme più sofisticate di AI a fini bellici: i sistemi di puntamento, gli sciami di droni e, a tendere, i robot, che si riveleranno le armi più potenti di questo secolo”. A scriverlo, con una prosa piana e consequenziale, a tratti quasi brutale non è un Dottor Stranamore – o forse è uno Stranamore, ma del nuovo millennio: Alexander Karp, ceo di Palantir Technologies, la società di analisi dei big data fondata nel 2003 con Peter Thiel e specializzata nelle loro applicazioni militari e nella sicurezza. Karp ha scritto con Zamiska “La Repubblica Tecnologica – Come l’alleanza con la Silicon Valley plasmerà il futuro dell’Occidente”, ora pubblicato in Italia da Silvio Berlusconi Editore, “frutto di un dialogo durato quasi dieci anni” e che non parla ovviamente solo di armi atomiche: è un vero e proprio saggio teoretico su una visione nuova, o comunque ribaltata rispetto al dibattito tradizionale, del ruolo della tecnologia digitale e della scienza, della loro “alleanza” (o funzione strumentale?) con il potere politico occidentale nella prospettiva di un dominio economico e militare sul mondo. Non poca cosa, soprattutto se si parte dal presupposto che l’autore non sia un Dottor Stranamore. Alex Karp non è un personaggio banale: famiglia intellettuale multiculturale, laurea a Stanford in Diritto, studi di filosofia e psicoanalisi, una specializzazione all’Università di Francoforte in sociologia. Nel frattempo l’avventura imprenditoriale nella Silicon Valley. E la grande conversione – ormai un classico che dovrebbe essere acquisito e non più una “scandalosa” novità per le belle menti – dalla “ideologia californiana” della Valley (Karp ha sempre votato democratico) a una visione coincidente con la nuova destra d’epoca trumpiana. A spiegare il lungo percorso basterebbe una delle citazioni messa in esergo del libro: “I fondamentalisti si precipitano dove i liberali hanno paura a passare”. Non è una frase di un trumpiano ma di Michael Sandel, sociologo e acclamato guru del pensiero comunitario, teorico anti-meritocratico: il migliore e più morbido pensiero progressista degli ultimi decenni. Eppure, in quel pensiero progressista che ha dominato e di certo ha guidato le Big Tech della Valley, c’è un’aporia, l’anello che non tiene, dice Karp: dove i liberali hanno paura di passare, arrivano i nemici. 
Il percorso del libro è lineare, in qualche punto anche troppo, ma aiuta a comprendere con più esattezza le dinamiche culturali, geopolitiche, economiche e anche militari in atto negli anni di Trump (già dal primo Trump) che troppo spesso si tende a liquidare come semplice crisi del sistema politico. Non è un caso che in un saggio di questo tipo la parola “democrazia” compaia quasi per nulla, mentre il titolo rimanda alla “repubblica” intesa come un interesse pubblico dominato da apparati. Intervistato dal New York Times, Karp è l’imprenditore-pensatore che poneva a sua volta domande così: “Siamo ancora abbastanza duri da spaventare i nostri avversari, e quindi evitare la guerra? Cinesi, russi, iraniani, ci considerano ancora forti?”. Palantir ha tra i suoi clienti l’esercito americano, l’intelligence, i corpi di polizia. Il suo primo “colpo” fu nel 2012, quando con i suoi sistemi di analisi mise a disposizione del Pentagono impegnato in Afghanistan tutte le conoscenze disponibili sui luoghi di fabbricazione delle armi dei talebani e la loro distribuzione. Nel libro si cita il generale Mark Milley, ex presidente degli stati maggiori riuniti, che nel 2024 ebbe a dire: “Pensiamo davvero che un aereo pilotato dall’uomo possa farla da padrone nei cieli del 2088?”. Il mondo, non solo delle armi, sta correndo rapido verso nuovi scenari ma per comprenderli – e per sostenere lo sguardo su di essi – bisogna partire da più lontano. 

 
La prima parte di “La Repubblica Tecnologica” è una radicale critica al “tradimento” che il mondo scientifico e l’industria digitale degli Stati Uniti hanno perpetrato nei confronti dell’America e dell’occidente. L’imbattibile superiorità tecnologia, e il conseguente “mito” della California, riepiloga Karp, ebbe origine durante la Seconda guerra mondiale, quando Roosevelt (il presidente democratico è curiosamente un idolo della “nuova destra” imprenditorial-ideologica) varò il Progetto Manhattan chiamando a raccolta le migliori menti scientifiche del paese e la forza economica delle più grandi imprese: “Roosevelt concentra sul Pacifico buona parte del suo sforzo di riarmo; gli investimenti nell’elettronica militare a San Francisco e dintorni seminano i primi germi di quella che in seguito diventerà la Silicon Valley”. L’unione proseguì nei decenni successivi, non ci sarebbe Internet senza gli ingenti investimenti pubblici nel settore militare: “La California si è imposta da cinque generazioni come un laboratorio d’avanguardia, non solo per la sua capacità di sfornare dirompenti innovazioni tecnologiche di portata globale, ma anche come culla di rivoluzioni di costume, valoriali e politiche”. Nella baia di San Francisco nasce anche il movimento artistico e libertario, accanto alle aziende tecnologiche e strategiche. Il rapporto, pur contraddittorio, tra apparati politico-militari e industria ha retto per decenni. Poi con la rivoluzione digitale si è consumato il grande tradimento – così lo considerano tutti i nuovi tycoon, da Musk a Thiel – dei giganti della Silicon Valley: “Hanno commesso l’errore strategico di concepire la propria esistenza come fondamentalmente estranea al paese che li ha visti nascere”, scrive. “I fondatori di quelle società hanno perlopiù visto negli Stati Uniti un impero in agonia, il cui lento declino non sarebbe riuscito a intralciare la loro ascesa e la corsa all’oro… Molti hanno in sostanza rinunciato a ogni serio tentativo di far progredire la società, di assicurarsi che la civiltà umana continuasse ad avanzare nel suo cammino”.  Al dunque: “La cornice etica imperante nella Valley, una visione tecnoutopica secondo cui la tecnologia avrebbe risolto tutti i problemi dell’umanità, si è trasformata in un approccio utilitaristico limitato e superficiale”. Il risultato è che “il comparto tecnologico aveva voltato le spalle alle Forze armate, non avendo il minimo interesse a scontrarsi con una burocrazia esagerata e con l’ambivalenza, se non proprio l’opposizione, dell’opinione pubblica nazionale”. Insomma la “rivoluzione digitale” per come è stata prodotta e vissuta da miliardi di consumatori: un grande divertimento senza confini e facilità del consumo.

 
Invece già allora Palantir batteva una strada opposta: la strada di domandarsi che tipo di società (quali “valori”) gli scienziati e l’industria digitale dovessero costruire per il futuro. Karp ha una certezza: quegli apparati hanno il dovere di contribuire alla sicurezza degli Stati Uniti e proteggere i valori dell’occidente. Ora, anche grazie all’immensa e rapida trasformazione dell’intelligenza artificiale, è giunto il momento di resettare tutto. Gli autori portano a esempio virtuoso “l’ascesa di J. Robert Oppenheimer e di decine di suoi colleghi alla fine degli anni Trenta”, è da lì che scienziati e ingegneri assumono un ruolo fondamentale “al centro della vita americana e della difesa dell’esperimento democratico… Era il secolo americano, e gli ingegneri erano il cuore della mitologia che andava affermandosi”. La frattura avvenuta negli scorsi decenni tra la cultura della Valley e la sua industria e le necessità della geopolitica e militari del governo degli Stati Uniti hanno prodotto una crescente debolezza che riguarda tutto l’occidente, scrivono Karp e Zamiska. “Un’intera generazione di fondatori di aziende si è ammantata della retorica di uno scopo nobile e ambizioso, ma il più delle volte ha accumulato quantità enormi di capitale e ha reclutato eserciti di ingegneri talentuosi solo per sviluppare app di condivisione foto e interfacce di chat per i consumatori moderni”. Intanto nella Valley e in parte del paese “ha preso piede un certo scetticismo nei confronti dell’operato del governo e delle ambizioni nazionali”. Ora, secondo il nuovo pensiero del fondatore di Palantir, è venuto il momento del redde rationem per le generazioni di “agnostici tecnologici” che hanno permesso il progressivo indebolimento dell’America di fronte a nemici tecnologicamente aggressivi: da che parte vogliono stare, in un mondo in cui la minaccia militare è ridiventata reale e in cui la “vittoria” sarà affidata non più alla “Bomba” ma ai big data applicati alla tecnologia di guerra? 

  
Alex Karp non è un filosofo visionario e apocalittico come il suo collega e socio Peter Thiel. Nelle metafore imperiali che vanno di moda nel nuovo mondo scombussolato dai conflitti, Thiel potrebbe essere Mecenate, il liberto-filosofo che costruì il tempo di pace di Augusto. Karp, americano di nascita, somiglierebbe di più a Marco Agrippa, il generale di ferro e pragmatico amministratore romano che costruì il potere militare del primo imperatore. Ma il mestiere delle armi si regge sui pensieri, nei quali pesa anche il nuovo populismo della destra (“Ci lamentiamo dell’influenza del denaro nella politica, per poi rimanere in silenzio quando i ricchi dominano sempre di più la corsa elettorale”). Pensieri lineari, brutali: “Negli ultimi cinquant’anni noi, in America e più in generale in occidente, abbiamo cercato di non definire le culture nazionali in nome dell’inclusività… Identificare qualcosa di simile a una cultura o a dei valori nazionali è diventato sempre più difficile e controverso”. Eppure “nel corso della storia dell’umanità gli Stati Uniti, pur con le loro imperfezioni, hanno fatto più di ogni altro paese al mondo per costruire una nazione in cui essere cittadini significa qualcosa di più che una semplice appartenenza etnica o religiosa. Vogliamo davvero abbandonare questo progetto e rinunciare a migliorarlo?”. La risposta, armi e idee in pugno, è chiara: “In questo libro, avanziamo la tesi che il comparto tecnologico abbia l’obbligo imperativo di sostenere lo stato che ha reso possibile il suo sviluppo”.
 

  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"