L'incontro

Trump voleva che la visita di Bin Salman fosse visita storica. Cosa ha avuto e cosa ha dato

Micol Flammini

La difesa su Khashoggi, gli F-35, la risoluzione al Conisglio di sicurezza delle Nazioni Unite, i fondi per Gaza. Il presidente americano incassa a parole l'impegno saudita per gli Accordi di Abramo ed esalta gli investimenti di Riad negli Stati Uniti

La visita del principe ereditario saudita Mohammed bin Salman (MbS) a Washington era stata progettata da Donald Trump per essere storica, quindi perfetta. Era dal 2018 che il figlio del re dell’Arabia Saudita non metteva piede alla Casa Bianca, dall’omicidio del giornalista Jamal Khashoggi presso il consolato di Riad a Istanbul:  l’intelligence americana indicò il coinvolgimento dello stesso MbS. Alla presenza dei giornalisti, dentro lo Studio ovale, era inevitabile che una domanda sull’uccisione dell’editorialista del Washington Post  venisse posta al principe saudita. 

Ed è stata la Abc a irrompere nell’idillio di annunci di investimenti miliardari (600 miliardi di dollari investiti negli Stati Uniti da Riad che potrebbero diventare un trilione) e chiedere conto del rapporto della Cia. Trump ha accusato la giornalista di lavorare per un “fake news media” (una testata che propala bufale, epiteto riservato ai media anti trumpiani), e ha definito Khashoggi un personaggio controverso che non piaceva a molti. MbS ha voluto rispondere alla giornalista, assicurando che Riad ha svolto tutte le indagini necessarie e apportato miglioramenti al suo sistema per fare in modo che fatti del genere non si ripetano. Secondo il rapporto della Cia, il principe saudita aveva approvato l’ordine di catturare o uccidere Khashoggi. 


L’omicidio del giornalista saudita avvenne durante il primo mandato di Trump, l’Amministrazione Biden promise più rigidità nei confronti dell’Arabia Saudita, ma al di là della poca simpatia fra Bin Salman e l’ex presidente democratico, i due paesi continuarono a lavorare su tutti i dossier lasciati aperti dalla squadra di Trump, inclusi gli Accordi di Abramo, le intese di normalizzazione con Israele che finora sono state siglate dagli Emirati Arabi Uniti, il Bahrein, il Marocco e presto dal Kazakistan. La più preziosa delle normalizzazioni però rimane quella fra Gerusalemme e Riad che Hamas voleva sabotare con il 7 ottobre, senza successo, tanto che gli incontri fra i funzionari dei due paesi andarono avanti anche durante la guerra a Gaza. Trump ha detto di aver ampiamente discusso l’argomento con il principe saudita e di essere certo che l’Arabia Saudita si aggiungerà agli accordi che promettono di rivoluzionare il medio oriente. Bin Salman non lo ha contraddetto: “Vogliamo fare parte degli Accordi di Abramo, ma vogliamo assicurarci di garantire un percorso verso la soluzione a due stati”. E ancora: “Gli israeliani meritano la pace, i palestinesi meritano la pace”. Il leader saudita continua a essere più interessato alla forma di una soluzione a due stati che alla sostanza. Bin Salman  ha detto che parteciperà alla ricostruzione della Striscia senza specificare quanto metterà e cosa. Trump aveva architettato tutto per ottenere il suo impegno nella normalizzazione con Israele e la risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite per l’approvazione del piano in venti punti per Gaza serviva  per mostrare che non si tratta soltanto di un progetto americano, ma anche per ravvivare agli occhi del saudita un accordo che sembra ancora troppo difficile da realizzare, soprattutto fino a quando Hamas non verrà disarmata. Russia e Cina non hanno posto il veto e l’adesione di un vasto numero di paesi arabi al progetto ha giocato un ruolo importante in questo – si sono astenuti, ma il loro veto avrebbe bloccato tutto. Bin Salman è arrivato a Washington che il piano per Gaza aveva avuto un plauso internazionale molto ampio e anche il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu aveva accolto la risoluzione in modo positivo, nonostante il testo contenesse un riferimento al “percorso” verso uno stato palestinese. Sul piatto Trump ha messo anche un accordo per la difesa con Riad e soprattutto la vendita degli F-35, i caccia americani che finora soltanto Israele possiede in medio oriente, anche secondo il principio che lega Stati Uniti e Israele e impegna i primi a privilegiare la superiorità del secondo rispetto agli altri paesi del medio oriente, potenzialmente rivali. La vendita degli F-35 prima che ci sia un accordo fra israeliani e sauditi romperebbe un principio, ma Trump assicura che “Israele è informato e sarà contento”. Gli F-35, che Trump ha fatto sfrecciare sulla testa di Bin Salman all’accoglienza in segno di promessa, potrebbero impiegare parecchio tempo prima di arrivare a Riad. 


Il capo della Casa Bianca non ha pensato soltanto al medio oriente, con Bin Salman al suo fianco nello Studio ovale, “questo è il posto più potente al mondo”, ha detto Trump, voleva anche mostrare il tornaconto americano dell’alleanza: investimenti sauditi nell’intelligenza artificiale americana, cooperazione futura sull’energia nucleare, vendita di armi, “le migliori al mondo”. 
 

  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)