Foto Ansa

1984 ai giorni nostri

I Due Minuti d'Odio: la profezia di Orwell si è avverata

Daniela Santus

Israele è il nuovo Emmanuel Goldstein, il nemico del popolo di “1984”. E  il linguaggio non descrive più la realtà. La sostituisce

Si chiama Flavio, è un sacerdote. Pensando alla situazione attuale, in un suo post su Facebook relativo ai vari talk-show televisivi ha rievocato Orwell. Ha ragione. D’altro canto a me Orwell torna in mente ogni qualvolta vedo centinaia di studenti riuniti davanti ai rettorati, negli androni delle università, nelle scuole, per le strade: tutti con gli stessi striscioni a scandire all’unisono “From the river to the sea”. Una coreografia perfetta. Ormai lo sappiamo e ne ho scritto più volte: inutile chiedere il significato dello slogan. I più risponderebbero “Libertà per la Palestina”. Inutile chiedere anche chi sia al governo di Gaza, per lo meno dal 2006, o quando sia nata l’Autorità nazionale palestinese. Non solo non lo sanno, ma neppure interessa loro saperlo. Quello che importa, ci dicono, “è fermare il genocidio”. Importa così tanto che manco si sono resi conto che, grazie al perfido Trump, è in vigore un cessate il fuoco che Hamas fatica a rispettare

 

Il mio amico Flavio ha ragione: il romanzo orwelliano 1984 si sta realizzando sotto i nostri occhi, nelle piazze e in tv. Non quello del Grande Fratello, non quello della neolingua, ma quello dei Due Minuti d’Odio. Ovvero quel rituale quotidiano in cui la folla si riunisce davanti a uno schermo per urlare contro Emmanuel Goldstein, il nemico del popolo (personaggio inventato da Orwell per il romanzo). Non serve sapere chi sia Goldstein, cosa abbia fatto, perché sia un traditore. Basta la sua immagine. L’odio esplode spontaneo, collettivo, rassicurante. E’ un esercizio di appartenenza. D’altra parte l’odio non ha bisogno di motivazioni razionali, di prove, di dibattito. Ha bisogno solo di un bersaglio e di un pubblico. E’ collettivo, quasi liturgico. E chi non partecipa, chi resta in silenzio, chi esita, diventa immediatamente complice del nemico.

 

Oggi, nei campus americani ed europei e nelle piazze, il meccanismo è identico. Lo stesso boicottaggio accademico contro Israele non è una critica politica. E’ un rituale di esclusione. Studiosi israeliani vengono esclusi da convegni non per quello che hanno detto o scritto, ma per il passaporto che hanno. Non importa se sono di sinistra, pacifisti, critici del governo Netanyahu. Importa solo che siano israeliani. Il boicottaggio non chiede nulla, non propone soluzioni. E’ solo un gesto di appartenenza: io sto dalla parte giusta, tu no. E le manifestazioni pro Pal seguono la stessa logica. Non sono manifestazioni “per” qualcosa. Sono manifestazioni “contro”. Si urlano slogan, si sventolano bandiere, si bloccano aule, a volte si distruggono arredi. Ma se chiedi a questi studenti cosa vogliano concretamente per i palestinesi, la risposta è vaga, confusa, spesso inesistente. Perché non è questo il punto. Il punto è partecipare al rito collettivo dell’indignazione, dove l’imperativo – almeno in Italia – è: “Blocchiamo l’università della Bernini e del genocidio”.

 

Per i docenti è diverso, l’indignazione è rivolta – oltre che nei confronti del “genocidio” – soprattutto nei confronti del dual use, ovvero quel meccanismo secondo il quale le tecnologie oggetto di ricerca accademica possono avere un duplice scopo: civile e militare. Tanto basta a boicottare medicina, archeologia, letteratura, agricoltura e via discorrendo. Forse questi colleghi dovrebbero avere la forza emotiva di guardare il video del 7 ottobre girato dagli stessi terroristi. C’è una scena che dimostra bene il dual use alla maniera di Hamas: un terrorista, presumibilmente un civile di Gaza vista la sua goffaggine nell’infliggere morte, sta adoperando una zappa (strumento agricolo) per cercare di staccare la testa alla sua vittima (azione militare) che giace a terra in un lago di sangue. Questo però non si boicotta.
Per il resto, tutto è permesso e lo sappiamo. Ho visto studenti ebrei costretti a nascondere la propria identità nelle università. Ho sentito testimonianze di ragazze con la stella di David al collo che si sono sentite dire: “Sei complice di un genocidio”. In alcune università americane la fantasia degli studenti è giunta alla creazione di checkpoint improvvisati: chi voleva entrare doveva dichiarare pubblicamente la propria posizione su Israele. Chi rifiutava veniva fischiato, insultato, fotografato. In realtà nulla di nuovo. Nel 2005, vent’anni fa, era accaduto anche all’Università di Torino, sede di Palazzo Nuovo. Gli studenti antagonisti avevano creato un muro che tagliava in due l’androne principale dell’edificio, per ricordare “il muro di Sharon”. Ironia della sorte, proprio nel 2005 Sharon aveva imposto lo sgombero di tutti gli insediamenti israeliani dalla Striscia di Gaza e, dal 2005, a Gaza non vive più nessun ebreo.

 

Ma qui come in Oceania (una delle tre superpotenze mondiali inventate da Orwell), non devi riflettere. Devi solo scegliere da che parte stare. E se scegli quella sbagliata, diventi il nemico. Orwell si è rivelato profetico. Già aveva capito che il controllo del linguaggio è il controllo del pensiero. Se elimini una parola, elimini il concetto che essa rappresenta. Se svuoti una parola del suo significato, la rendi inoffensiva. O, al contrario, se carichi una parola di connotazioni negative, la trasformi in un’arma. Vorrei soffermarmi su tre termini: sionista, genocidio, decolonizzare.

 

Oggi, “sionista” è diventato un insulto rituale. Svuotato del suo significato storico, è diventato sinonimo di razzista, colonialista, oppressore. Non importa che il sionismo sia stato, per molti ebrei, una risposta alla persecuzione. Non importa che Theodor Herzl abbia scritto Der Judenstaat dopo aver assistito al processo Dreyfus. Non importa neppure che per molti sopravvissuti alla Shoah, Israele sia stato l’unico posto dove poter vivere. “Sionista” è il nuovo Goldstein. Basta pronunciare quella parola e l’odio è giustificato.

 

Poi c’è “genocidio”. Un termine che dovrebbe avere un peso specifico, una gravità quasi sacra. Raphael Lemkin la coniò nel 1944 per dare un nome all’orrore della Shoah. Oggi viene usata con una disinvoltura che fa rabbrividire. A Gaza il genocidio appare perenne. Eppure Gaza ha una popolazione che dal 1948 a oggi è cresciuta da 80.000 a oltre due milioni di abitanti. Seppur non sappiamo ancora quale sia il reale conteggio delle vittime di questa guerra imposta da Hamas, i dati disponibili sollevano interrogativi significativi. Il ministero della Salute di Gaza, controllato da Hamas, ha inizialmente dichiarato oltre 40.000 morti. Tuttavia, analisi indipendenti hanno evidenziato incongruenze: numeri identici ripetuti per giorni consecutivi, impossibilità di distinguere tra combattenti e civili, impossibilità di verificare le cause delle morti. Anche le Nazioni Unite hanno dovuto rivedere al ribasso i dati iniziali sulle donne e bambini uccisi. La realtà dei numeri, per quanto drammatica rimanga ogni singola vita persa, appare diversa dalla narrazione che si è voluto costruire.

 

In ultimo “decolonizzazione”. Una parola-talismano che giustifica qualsiasi violenza. Il 7 ottobre? Decolonizzazione. I massacri nei kibbutz? Decolonizzazione. Le donne violentate, i bambini uccisi, gli ostaggi rapiti? Tutto decolonizzazione. E’ la parola magica che trasforma l’orrore in eroismo, la barbarie in resistenza. Orwell l’avrebbe chiamata “doppiopensiero”: la capacità di credere simultaneamente in due concetti contraddittori. La violenza è pace. L’odio è giustizia. Dunque il ribaltamento è completo: chi difende il diritto di Israele a esistere viene accusato di genocidio, mentre chi giustifica il 7 ottobre parla di resistenza. Il linguaggio non descrive più la realtà. La sostituisce.

 

A volte mi chiedo perché io mi ostini a continuare a scrivere, quando tutto è perduto. Forse la risposta è che scrivo soprattutto per me, ancora prima che per voi. Scrivo per rivendicare il mio diritto di non essere complice della dittatura del pensiero, per rivendicare il mio diritto di rifiutarmi ai Due Minuti d’Odio e alla sua normalizzazione. Voglio continuare a pormi domande, anche a rischio della marginalizzazione. Orwell lo aveva capito perfettamente: “L’ortodossia è non pensare, non aver bisogno di pensare. L’ortodossia è inconsapevolezza”. In fondo l’odio contro Israele è diventato ortodossia. Non serve pensare, non serve informarsi, non serve dubitare. Basta aderire. Basta urlare. Basta firmare. E se non lo fai, sei fuori. Sei sospetto. Sei nemico.

 

C’è un’ironia amara in tutto questo. 1984 è un libro proibito in molti paesi: Cina, Corea del Nord, Russia in certe fasi della sua storia. Perché? Perché smonta i meccanismi del totalitarismo. Perché insegna a riconoscere la manipolazione, il controllo del linguaggio, la normalizzazione dell’odio. E’ un libro pericoloso per i regimi. Ma forse la vera ironia è che l’Occidente democratico, che può leggere Orwell liberamente, ripete esattamente quei meccanismi. Non c’è un Grande Fratello che impone i Due Minuti d’Odio. Non serve. La folla si organizza da sola. L’odio si autoalimenta. Se Orwell avesse potuto vedere le manifestazioni nei campus, i boicottaggi accademici, gli slogan, avrebbe riconosciuto immediatamente il suo Goldstein. Avrebbe riconosciuto i suoi Due Minuti d’Odio. Avrebbe riconosciuto Oceania. E questa, forse, è la profezia più inquietante che Orwell ci ha lasciato: non che il totalitarismo arriverà dall’alto, imposto da un regime. Ma che arriverà dal basso, costruito da noi stessi, un minuto d’odio alla volta.

Di più su questi argomenti: