Chi entra e chi esce da Gaza

I duecento miliziani di Hamas nel tunnel a Rafah bloccano il futuro del piano per Gaza

Micol Flammini

Non cedono le armi e non ci sono paesi disposti ad accoglierli dopo l’esilio. Trump punta sulla visita del saudita Bin Salman a Washington per qualche progresso nella normalizzazione con Israele 

Gli americani vanno e vengono da Israele, convinti che l’accordo non fallirà e determinati ad aggiustare ogni dettaglio. Vogliono cercare il modo di far funzionare l’intesa, convinti che sia il punto di partenza per un nuovo ordine in medio oriente. Gli Stati Uniti sanno che per il momento, l’ostacolo più grande rimane Hamas, che rifiuta di disarmarsi. Ci sono duecento miliziani oltre la Linea gialla, quindi all’interno della parte di Gaza che è attualmente ancora controllata dall’esercito israeliano. Come Tsahal si è ritirato da metà della Striscia, così i miliziani avrebbero dovuto lasciare la parte di territorio che nella prima fase del piano di Trump rimaneva sotto il controllo dei soldati di Israele. Duecento miliziani non lo hanno fatto, sono rimasti in un tunnel nella zona di Rafah da dove hanno condotto due attentati contro l’esercito israeliano. Ai duecento è stata fatta un’offerta, condivisa da Israele e dagli Stati Uniti: disarmatevi, accettate l’esilio e avrete un passaggio in sicurezza. L’alternativa è che il tunnel venga colpito dall’esercito e non poche persone dentro Israele, di qualsiasi schieramento politico, ritengono che il premier Benjamin Netanyahu stia concedendo troppo tempo ai terroristi. 


La scorsa settimana, sul giornale online Maariv è apparso un commento molto duro in cui si  sosteneva che ai miliziani non si sarebbero dovute concedere più di settantadue ore per accettare l’offerta e l’indecisione  dimostrava ancora una volta l’incapacità del premier di capire la mentalità di Hamas. I duecento terroristi sono diventati una prova per capire se Hamas intende o meno rispettare gli accordi presi e disarmarsi. Alle volontà del gruppo si aggiunge un problema ulteriore: i duecento, come poi dovrebbero fare anche gli altri miliziani che sono nella metà di Gaza controllata da Hamas, per ottenere l’amnistia devono accettare l’esilio, ma finora non ci sono paesi  pronti ad accogliere i terroristi esiliati. Neppure il Qatar, il paese che ha sponsorizzato Hamas e che ospita gran parte della sua leadership, ha detto di volere i miliziani. Soltanto la Turchia ha espresso con molta vaghezza un’apertura. 


Cresce la schiera di paesi che, pur dicendo di tenere al futuro di Gaza e dei palestinesi, rifiuta qualsiasi misura concreta per aiutarli: ieri il Sudafrica ha tenuto bloccato su un aereo un gruppo di profughi palestinesi uscito da Gaza che volava da Israele minacciando di rispedirlo nella Striscia. I paesi che hanno accettato di diventare parte del piano in venti punti del presidente americano vedono Gaza come un posto in cui mettere piede quando i problemi con Hamas saranno risolti, non prima. Nessuno è disposto a partecipare alla fase più difficile, quella in cui bisognerà forzare il gruppo a cedere le armi. Tutti si tengono lontani, soltanto Ankara si dimostra attiva. Il presidente americano Donald Trump è grato al leader turco Recep Tayyip Erdogan per la disponibilità, ma Israele non può accettare che sia Ankara a prendere il ruolo di potenza dominante a Gaza: è un pericolo, la Turchia, assieme al Qatar, ha dato sostegno economico a Hamas, ospita le banche del gruppo e alcuni esponenti. La presenza dei turchi non può essere una garanzia di sicurezza per gli israeliani e allontana anche la partecipazione dell’attore che Trump voleva più coinvolto: l’Arabia Saudita. 


La prossima settimana il principe ereditario saudita, Mohammed bin Salman, andrà negli Stati Uniti per la prima volta dall’omicidio del giornalista Jamal Khashoggi nel 2018, ucciso dentro il consolato saudita a Istanbul. La diplomazia americana lavora a questa visita da tempo, al centro dell’incontro ci saranno un accordo di difesa simile a quello che gli Stati Uniti hanno offerto al Qatar, l’acquisto dei caccia F-35 e altri progetti sull’intelligenza artificiale. La visita è stata preceduta da piccoli passi: l’ingresso del Kazakistan negli Accordi di Abramo e poi l’arrivo di Ahmed al Sharaa, primo presidente siriano alla Casa Bianca. Trump considera l’adesione dei sauditi agli Accordi di Abramo, la vetta dell’intesa, il punto essenziale per rivoluzionare il medio oriente e, durante l’incontro della prossima settimana, vorrebbe ottenere qualche progresso. Nei fatti, il principe saudita ha già iniziato ad apportare dei cambiamenti, per esempio a livello dell’istruzione eliminando contenuti antisemiti dai libri scolastici. Ma il divario fra Arabia Saudita e Israele è ampio e Bin Salman vuole che Netanyahu si impegni in un percorso vincolato e irreversibile per la creazione di uno stato palestinese. Il premier non è disposto ad accettarlo, per il momento. E la maggior parte dello spettro politico israeliano la pensa come lui, almeno fino a quando a Gaza resterà Hamas con le armi in mano. 

  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)