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In isolamento
L'accordo sullo shutdown spacca i democratici americani. Perché Chuck Shumer è tanto attaccato
Dopo aver votato insieme al gruppo dei repubblicani in Senato, il leader dem è finito sotto il tiro di diversi suoi colleghi di partito e non è la prima volta. Ormai Schumer simboleggia proprio la gerontocrazia dei democratici
Dopo che l’accordo per lo shutdown è stato siglato dalla quasi totalità del gruppo repubblicano al Senato assieme a otto esponenti democratici compreso il numero 2 del gruppo Dick Durbin, sotto tiro ci finisce il leader Chuck Schumer, che invece ha tenuto duro fino all’ultimo dichiarando in aula che “in buona coscienza, non posso votare quest’accordo” a causa dell’incombente “crisi sanitaria”. Eppure, il mondo progressista è già in fibrillazione.
Nelle ore precedenti all’ufficialità varie personalità di area di sinistra sui social tambureggiavano dicendo che “Schumer e un pugno di democratici si preparano a cedere”, invitando i cittadini a subissare di mail e chiamate gli indirizzi del senatore. Anche quando alla fine non è stato tra quelli che hanno deciso di negoziare dietro le quinte con il leader del Gop, John Thune, Schumer è finito comunque sotto tiro di diversi suoi colleghi, anche alla Camera. Tra i primi ad attaccarlo, il progressista della California Ro Khanna, noto per i suoi attacchi all’establishment e ai big della Silicon Valley. La dichiarazione si può sintetizzare così: Schumer non è più un leader efficace e perciò va rimosso. Presa di posizione immediatamente condivisa dal collega del Massachusetts Seth Moulton. Moulton, in particolare, ha rincarato la dose anche perché ha sfidato alle primarie uno dei grandi vecchi del partito, il senatore Ed Markey, dicendo che “se Schumer avesse voluto, avrebbe tenuto il suo caucus unito e votato contro l’accordo di budget” fino al 30 gennaio prossimo. Forse, ma è difficile da dire cosa sarebbe successo: per esempio, a parti invertite, Mitch McConnell, per sei anni leader di maggioranza, nonostante la fama di regnante con pugno di ferro e terrore dei semplici eletti, spesso aveva defezioni importanti su cui poteva contare il presidente Joe Biden per votare leggi di grande importanza. Non importa, c’è altro di cui Schumer è accusato e non da ieri.
Per esempio, uno dei critici di questi giorni, il senatore del Vermont Bernie Sanders, che ha definito la resa degli otto esponenti democratici “un giorno nero per la democrazia americana”, lo ha utilizzato in un documentario che lo vede in tour in West Virginia nelle contee più trumpizzate d’America: lì Schumer appare in un vecchio filmato a simboleggiare l’establishment del partito, vicino alle corporation e ai grandi donatori. In parte è così ma non si può non percepire la svolta a sinistra di un gruppo dove dall’elezione di Barack Obama, tanto per fare un esempio, sono spariti gli esponenti pro life e quindi l’essere difensori dell’aborto è diventato un requisito minimo per essere eletti. Tutto dimenticato. Ormai Schumer, ancor più della leadership della Camera, dove Nancy Pelosi ha ceduto il passo ad Hakeem Jeffries dopo le elezioni di midterm del 2022, simboleggia proprio la gerontocrazia dei democratici. Lui infatti è ritenuto responsabile del continuo reclutamento di esponenti ultrasettantenni laddove ci sono candidati emergenti non perfettamente allineati, come Graham Platner in Maine, a cui Schumer e i suoi hanno contrapposto la governatrice dello stato Janet Mills, oggi settantottenne.
C’è molto di più però. Si può capire da come lui, ebreo newyorchese doc, si sia rifiutato di dare il suo sostegno ufficiale al sindaco poi eletto Zohran Mamdani. Ed ecco la pietra dello scandalo: se su economia e diritti civili il gruppo dei senatori si è spostato a sinistra, su Israele il gruppo è spaccato. E la maggioranza, Schumer compreso, esprime un forte sostegno allo stato ebraico. Già a maggio 2018, in pieno scontro con la prima Amministrazione Trump, Schumer espresse apertamente il suo appoggio allo spostamento dell’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme dicendo “qui voglio elogiare il presidente Trump”.
Lo scorso marzo, in un’intervista con Bret Stephens del New York Times, ha detto: “Il mio lavoro è quello di mantenere la sinistra pro Israele”. Compito su cui sta fallendo su tutta la linea, anche se non è apprezzato nemmeno a destra: quando nel 2024 definì il premier israeliano Benjamin Netanyahu un ostacolo per la pace, si guadagnò da Trump l’appellativo di “palestinese”, una provocazione nel più puro stile del tycoon. Ed è sull’antisemitismo, infatti, che la presenza di Schumer è sgradita in modo bipartisan: perché lui coglie segnali di intolleranza sia quando la sinistra usa il termine “sionisti” sia quando dice “globalisti”. In entrambi i casi i fenomeni sono da combattere. Per questo ora Schumer è rimasto isolato. Anche se manca uno sfidante che possa sostituirlo, per ora.