Adam Gopnik vede New York più come un apripista che un’eccezione: “Quello che succede qui poi succede nel resto del paese, dai grattacieli allo yogurt congelato” (Getty Images)
l'ntervista
Trump, Mamdani e l'America vista da Adam Gopnik
Nato in Canada, ama New York, dove è tornato a vivere dopo sei anni passati in Francia. Mamdani? Inquietante sul medio oriente. Trump a confronto con il passato. La sinistra? Ha fallito, e il liberalismo è in crisi
In questi giorni, Adam Gopnik è in scena a teatro con un one man show nel quale ripercorre con autoironia il percorso esistenziale che lo ha portato a essere un punto di riferimento del mondo intellettuale americano, un autore bestseller e una delle firme più prestigiose del New Yorker. Non sorprende quindi che il titolo dello spettacolo, accolto da ottime critiche, sia "Adam Gopnik’s New York". Sono in pochi a conoscere questo lato della sua personalità: ama recitare, come ha dimostrato interpretando sé stesso duettando con Cate Blanchett in Tar, e scrive libretti per commedie musicali. Canadese di nascita come la moglie Marta Parker, produttrice cinematografica, è innamorato della città che li ha accolti e nella quale sono tornati a vivere dopo sei anni passati in Francia, raccontati brillantemente nel delizioso "Da Parigi alla luna".
Il giorno nel quale ci incontriamo è uscito sul New Yorker un suo commento acuminato alla decisione di Donald Trump di abbattere l’East Wing della Casa Bianca per far posto a una sala di ballo. E’ un articolo in perfetto stile Gopnik, nel quale l’ironia si fonde con una lettura dell’eccezionalità americana: “E’ la casa del popolo, ma è stata storicamente anche una casa di famiglia con dimensioni e suddivisioni tipiche di queste case”.
Dopo aver ricordato che John Ruskin osservava che “ogni nazione scrive la propria storia in molti libri, ma il libro dei suoi edifici è quello che dura maggiormente”, cita l’Alhambra e la Torre Eiffel per evidenziare come l’attuale amministrazione giustifichi scelte agghiaccianti con qualcosa di vagamente simile realizzata dalle amministrazioni precedenti, come ad esempio i pannelli solari installati alla Casa Bianca da Jimmy Carter. Quello che manca completamente, aggiunge Gopnik, è il tentativo di comprendere il punto di vista dell’interlocutore, anche quando quest’ultimo è un avversario: “Richard Nixon decise di confrontarsi personalmente con gli studenti che protestavano una mattina all’alba al Lincoln Memorial, cercando di capire da dove nascevano le loro motivazioni”.
Parlando di giovani, vorrei iniziare questo dialogo su quanto appena successo a New York: un trentaquattrenne socialista e musulmano diventa sindaco della città.
Insieme a mia moglie Marta conosciamo sua madre Mira Nair, ottima regista, da quando eravamo molto giovani. Credo che siamo stati tra i primi a vedere il suo bel documentario Far from India in moviola. Ho avuto l’opportunità di prendere un caffè con Zohran non molto tempo fa, prima che raggiungesse l’apice della sua fama: affascinante, riflessivo, intelligente e con istinti politici quasi a livello di Obama. Ammiro e sono allietato dal modo in cui è riuscito a ispirare la sua generazione ad appassionarsi alla politica nella maniera più energetica e vibrante. Per tutto questo gli dico bravo, tuttavia, se devo risponderle in qualità di ebreo, molto secolarizzato, cosmopolita e non osservante, devo dire che trovo le sue opinioni su Israele e sul medio oriente inquietanti e insensibili. Il suo uso del termine “crimini di guerra” a proposito degli orribili massacri di ebrei del 7 ottobre da parte di Hamas è un tentativo abile, ma solo parzialmente riuscito, di trasformare un massacro nello stile delle Einsatzgruppen in un deplorevole eccesso di una guerra in corso tra due forze armate. (I crimini di guerra sono tali quando i soldati mentre combattono uccidono dei civili, non quando combattenti armati vanno in cerca di civili per ucciderli; Dresda e Coventry sono una cosa; Treblinka e Babi Yar un’altra). Le loro motivazioni non erano differenti rispetto a quelle delle SS e dei loro alleati baltici: rimuovere i coloni ebrei dalla terra nella quale sono degli alieni intrusi, e questo vale sia per la Lituania che per la Palestina. Fortunatamente, il sindaco di New York non ha un ruolo diretto nel medio oriente – né ho alcun ruolo io, che provo nient’altro che opposizione al folle e cinico governo israeliano: in Svezia, nel corso di una discussione con Simon Schama, l’ho attaccato con tanta veemenza che l’ambasciatore israeliano è uscito per protesta dalla sala. Non dovrebbe essere difficile denunciare il terrorismo e gli omicidi di massa senza equivoci e senza riserve.
Lei ha ricordato Nixon che decise di confrontarsi con i giovani che protestavano per la guerra in Vietnam.
I miei genitori se ne andarono via dagli Stati Uniti nel 1968 per molte ragioni, e una delle più importanti era il Vietnam. A ripensarci, come afferma Luke Menand, i vincitori della guerra sono stati degli stalinisti. Ciò non cambia la realtà del fatto che sia stato uno spreco criminale di uomini e risorse per nessun obiettivo degno di questo nome.
Anche ai nostri giorni ci sono proteste universitarie: c’è una lezione da imparare da quelle degli anni Sessanta?
La riflessione riguarda le proteste di massa ma anche le politiche dure e inflessibili del governo… chi protesta dovrebbe distinguere tra la condanna a quanto di sbagliato fa il governo e l’abbracciare il male che esprime l’altra parte della barricata. La guerra del Vietnam è stata un disastro per l’America e i nordvietnamiti comunisti non erano amici dell’umanità.
Perché il mondo di sinistra sembra essere una minoranza ovunque?
Non essendo un uomo di sinistra questo mi preoccupa poco. In termini storici la sinistra iniziò intorno al 1860 quando Marx a Londra si mise a capo della Prima Internazionale: è una tradizione con molti bei personaggi ed eroi ammirevoli, che però nella pratica ha fallito disastrosamente, quindi non riesco a compiangerne il declino. D’altro canto, il liberalismo, definito in quegli stessi anni a Londra da John Stuart Mill, sta attraversando una crisi della quale bisogna preoccuparsi, ma tenendo presente che è nei suoi geni una costante induzione al confronto pubblico e alla polemica, sarà, o quantomeno apparirà sempre in crisi.
C’è qualcosa che lei ammira in Donald Trump?
Trump è qualcosa di straordinario: un essere umano senza un unico tratto ammirevole, neanche l’affetto per i suoi figli o i suoi animali. Le persone che lo conoscono meglio non solo temono, ma lo disprezzano con tutte le loro forze.
Non c’è dubbio però che abbia dei talenti per aver conquistato due volte la Casa Bianca e nel modo in cui sa interpretare gli umori di una parte del paese. C’è qualcosa che si può imparare da lui?
E’ un argomento molto vasto, limitiamoci alla comunicazione: rispondo con le parole di mia figlia di 21 anni, più saggia di me. Riflettendo sulla politica risponde – enfaticamente e con mia avversione – Certo! L’opposizione dovrebbe imparare la maestria con cui sa utilizzare i social media. Secondo lei ha lo stesso ruolo decisivo che rivestì la maestria di JFK nell’uso della televisione. Ignorare questa lezione, e continuare nel 2025 a fare la politica del 1988 è disastroso. Non c’è dubbio che questo sia vero e merita di essere imparato.
Gran parte della stampa è ostile a questa amministrazione, ma senza autentici risultati politici.
Come si dice nei processi, io contesto la premessa. La stampa potrà pure essere “contro” di lui, ma le abitudini radicate dei media rispettabili, finiscono per assecondarlo in maniera semplice e supina. Ogni giorno il New York Times normalizza e minimizza il comportamento di Trump – non per un’ammirazione segreta o per il desiderio di tenerlo calmo, ma per abitudini radicate che non si applicano più alla realtà in cui viviamo. Questa stampa è ostaggio delle sue stesse procedure, ad esempio quando si sforza di raccontare qualcosa da due punti di vista, mentre dall’altra parte c’è un autoritarismo cieco e cinico. E’ lo stesso meccanismo che ha portato l’Amministrazione Biden a ritenere che seguendo le regole e restaurando le procedure normali e il rispetto delle istituzioni, avrebbero potuto far rinascere magicamente una politica normale.
Oltre alla situazione degli immigrati, uno dei fattori che ha portato all’avvento di Trump è stata una reazione alla presidenza Obama.
Le elezioni di Barack Obama ha rappresentato un grande evento nel quale ancora sentiamo il riverbero: abbiamo avuto l’impressione che l’antica ferita fosse sanata. Tuttavia, abbiamo sottovalutato quanto quest’uomo moderato, centrista e dal grande fascino, fosse dirompente e minaccioso per coloro che non si sentivano rappresentati da lui. A proposito dell’abilità di manovrare la stampa, ricordo l’assurda accusa che Obama non fosse americano che ha dominato i media per lungo tempo, costringendolo a esibire i documenti che dimostravano che era nato alle Hawaii. Nel 2011 ho avuto la fortuna di essere presente alla cena nella quale Obama prese in giro la ricerca del suo certificato di nascita da parte di Trump e non ho mai visto un essere umano più chiaramente umiliato dell’attuale presidente. Dovevamo capire allora cosa ci avrebbe destinato il futuro.
Ritiene che il razzismo sia qualcosa di innato nell’uomo?
Dal momento che come esseri umani ci aggrappiamo a ciò che è familiare e troviamo la nostra identità nella tribù e nell’etnia, penso che lo sia. C’è poi da osservare che non è errato ritenere che la razza sia in gran parte una costruzione culturale, ed è sotto gli occhi di tutti la brutalità e la violenza che è stata commessa tra “razze” apparentemente simili, come i cattolici e i protestanti in Irlanda, o gli Huti e i Tutsi in Ruanda.
E la religione? Ritiene sia innata negli esseri umani?
La religione, intesa come senso comune condiviso di valori e di rispetto per le forze inesplicabili della civiltà – la musica, i rituali, le cerimonie – è certamente nel cuore di ogni esistenza. Le vetrate richiedono la nostra adorazione. Ciò che Charles Taylor afferma sullo spazio intermedio nel quale l’arte incontra il fruitore e vengono creati i valori, riverbera –misteriosamente ma certamente – in quello che penso sul senso dell’esistenza: preferisco di gran lunga ascoltare il Messia che una lezione di Richard Dawkins. Il valore dell’irrazionale dovrebbe essere presente in ogni persona razionale. Detto questo, se per religione intende prendere seriamente il racconto superstizioso di elementi sovrannaturali come se si trattassero di eventi fattuali, temo che anche questo sia innato nella natura umana, ma in maniera tragica, come gli istinti tribali e omicidi che esso promuove.
C’è un politico che lei ha combattuto e detestato, ma poi ha imparato ad ammirare?
George Bush padre sembra oggi esattamente quello che dovrebbe essere un presidente conservatore: razionale, decoroso, umano, con un curriculum impeccabile e caratterizzato da autentico coraggio, capace di perdere le elezioni con la stessa dignità e grazia che ha dimostrato il suo contemporaneo britannico, John Major. Calvin Trillin una volta ha detto che l’amministrazione in carica fa sempre rimpiangere quella precedente, e in questo caso vedremo se Donald Trump riesce a farci rimpiangere entrambi i presidenti Bush.
Anche qui sposto la domanda in un altro campo: c’è uno scrittore che ha detestato e poi ha imparato ad ammirare?
Gore Vidal mi è sempre sembrato un autore satirico sprezzante e pieno di sé, ma poi quando l’ho incontrato sono rimasto colpito dalla sua indubbia intelligenza, l’amore per la letteratura e persino da un inaspettato calore. Se ci abbassiamo a livello giornalistico, in passato ho preso in giro Tom Friedman per il suo ottimismo sproporzionato sulla globalizzazione, degno del dottor Pangloss di Voltaire, ma è stato bravo e coraggioso sugli orrori avvenuti a Gaza e ha usato la sua influenza a fin di bene.
In una recente conversazione con Pascal Bruckner, avete citato entrambi Albert Camus e Raymond Aron come punti di riferimento intellettuale. Potrebbe citarmi anche qualche americano?
Gli americani che ammiro maggiormente tendono a non essere filosofi professionisti – anche se a dire il vero non lo erano neanche Aron e Camus – ma scrittori e saggisti. Benché abbia letto con piacere Richard Rorty, prima di quanto abbia letto John Rawls, per la mia salute e il senso delle proporzioni volgo il mio sguardo e la mia attenzione a E.B. White, Louis Menand, Edmund Wilson, Gary Wills, i quali sembrano possedere i due elementi che ho elencato più degli altri.
Lei è tra coloro che ritengono che New York sia un’eccezione rispetto all’America o qualcosa che il resto del paese diventerà prima o poi?
Storicamente New York è stata più un apripista che un’eccezione. Quello che succede qui poi succede nel resto del paese, dai grattacieli allo yogurt congelato. L’evento più significativo di cui sono stato testimone negli ultimi 45 anni è l’immigrazione proveniente dall’Asia meridionale, le Filippine e l’Africa occidentale, che è subentrata nelle roccaforti italiane, ebraiche e irlandesi. All’inizio si trattava di un fenomeno invisibile, poi è diventato sempre più evidente. Questa benvenuta diversità sta diventando un fenomeno sociale anche nel resto dell’America e genera resistenza: spiega nello stesso tempo l’ascesa del trumpismo e il motivo per cui dobbiamo sperare che finisca.
Lei ha vissuto sei anni a Parigi: quale è stata la lezione più grande di quell’esperienza nella vecchia Europa?
Tra le infinite lezioni… ho imparato che devi prendere le culture per come le trovi, nella misura in cui prendiamo il mondo come lo troviamo. Un tempo contestavo la cultura ufficiale francese mentre celebravo la sua bella civiltà quotidiana. I burocrati, le formalità, le insopportabili astrazioni che vedevo nella vita ufficiale mi apparivano in guerra con la cultura dei caffè, i film e gli amori spensierati. Ora sono incline a pensare che una cosa dipende dall’altra come la vitalità dell’America è inestricabile dalla sua volgarità e violenza. Come sapeva bene Montaigne, le nazioni, come le esistenze, sono fatte delle loro contraddizioni.