Gore Vidal stava molto in Italia. Si era stabilito a Roma nel 1958 per sceneggiare “Ben Hur” (LaPresse) 

Dieci anni senza Gore Vidal, il populista geniale

Michele Masneri

Aristocratico della polemica e della politica, storico e critico dell’America

Che personaggio Gore Vidal. Dello scrittore morto dieci anni fa nel luglio del 2012 qualche tempo fa Netflix congelò un biopic già quasi pronto, realizzato con costi ingenti, con Kevin Spacey a interpretarlo, ma all’alba delle denunce per i palpeggiamenti (quanto si sarebbe divertito Vidal, che sosteneva di non rinunciare mai a “fare sesso o andare in televisione”. E che visse lungamente in Italia perché “i prostituti costavano poco”). 

 

Molte scene già girate, appunto, tra Roma e la Costiera, perché Vidal stava molto in Italia. Si era stabilito a Roma nel 1958 per sceneggiare “Ben Hur”; era quella fase in cui Roma invece che epicentro della monnezza era una capitale del cinema, della letteratura, e anche di una certa allegrezza, come racconta nelle sue memorie bellissime, divise in due volumi, “Palinsesto” e “Navigando a vista”, entrambe edite in Italia da Fazi, l’editore che lo rilanciò negli ultimi anni della carriera e della vita.

 
Era la Roma narrata da Pasolini e Arbasino, dei pischelli che si tuffavano nel Tevere dalla piattaforma del Ciriola, dei militari seduti sulla scalinata di piazza di Spagna, dei sospiri di Sandro Penna.  Vidal abitava a piazza Argentina sopra la futura Feltrinelli – presto l’unica rimasta in centro –  guardando le rovine e i gatti e scrivendo capolavori tra cui il magnifico e mai ristampato “Due sorelle” (attenzione, qui si parla di veri capolavori. Siamo nell’epoca in cui i superlativi non erano d’obbligo). E poi il  romanzo più camp e allegramente porno del Novecento, “Myra Breckinridge”, storia di un uomo che decide di diventare la vedova di sé stesso e ottenere dallo zio la scuola per aspiranti artisti che lui dirige a Hollywood, con una celebre scena di una visita medica in cui nulla viene risparmiato a un rude maschione (era il 1968, ma a Vidal interessava certamente più il 69). Myra divenne un successo colossale che finì direttamente nel canone occidentale di Harold Bloom, e un blockbuster planetario con Raquel Welch. Vidal sostenne sempre che era la sua opera preferita.

 

Ma in Italia, patria eletta, oltre a Roma c’era la Rondinaia, la villa comprata a Ravello nel 1972, che rivaleggiava per status con un’altra celebre fortezza acquatica, la Colombaia ischitana di Luchino Visconti, per non parlare di altri buen retiri balneari, quasi tutti divenuti hotel di charme (ma un documentario Netflix sulle “gran case” gay pieds dans l’eau si vedrebbe volentieri. Zeffirelli a Positano, Villa TreVille, Nureyev addirittura un’isola privata, Li Galli).  A Ravello Vidal si divertiva molto a dare consigli politici a sindaco e assessori, stando in piazza e ascoltando i pettegolezzi, come una House of Cards amalfitana. Ci passavano Hillary Clinton, e prima la “sorellastra” Jackie Kennedy e il nemico-amico Truman Capote, e Nureyev e John Huston e Orson Welles e Andy Warhol.

 

La casa, venduta nel 2005, oggi è passata nuovamente di mano, ci racconta al telefono l’albergatore Vincenzo Palumbo. Proprietario della vicina villa Maria, Palumbo la comprò 17 anni fa e ora è passata a un altro gestore. La piscina che si affaccia su Capri e Positano, i portici e i grandi locali con i soffitti a vela, sono la cornice di “Palinsesto” (1995): “La stanza dove lavoro è un cubo bianco con un soffitto ad arco e, alla mia sinistra, una finestra che dà sul Golfo di Salerno in direzione di Paestum. In questo momento, mare grigio metallico e foschia bianca che oscura il nostro sole sempre più ostile”. E ancora: “mi ha sempre incuriosito conoscere dove si trovino fisicamente gli scrittori quando scrivono le loro memorie. Se si tratta di opere di fantasia, la loro collocazione è meno interessante, in quanto la vera geografia di un romanzo è tutta nella mente. Ma un libro di memorie nasce da mille associazioni, spesso proprio dagli oggetti di una determinata stanza. Così, di fronte a me c’è un grosso camino di tufo grigio con elaborate ceramiche giallo-verdi-azzurre. Su una mensola, alla sua destra, una fotografia di Tennessee Williams con Maria St. Just”.

 

Proprio con l’amico autore di “Un tram che si chiama desiderio” Vidal arrivò per la prima volta in Costiera nel 1948.  E lì, sapeva di non poter sfuggire al cliché del Famoso Residente Estero : “sembra che ogni città italiana sia sotto tutela di uno scrittore straniero. Capri è famosa per aver ospitato Norman Douglas; Graham Greene viveva ad Anacapri” scrive in “Navigando a vista”. E la Rondinaia doveva essergli piaciuta anche per i precedenti proprietari e le storie bizzarre. Ad acquistarla, nel 1904 fu Lord Ernest William Grimthorpe, nipote di quel Lord Grimthorpe massimo esperto vittoriano d’architettura ecclesiastica e orologi pubblici. Autore di un importante trattato su orologi e torri campanarie, “A Rudimentary Treatise on Clocks, Watches, and Bells”, Grimthorpe zio progettò il meccanismo del Big Ben e venne molto criticato all’epoca per i suoi interventi architettonici che oggi si definirebbero invasivi, tanto che “to grimthorpe” entrò nel lessico come sinonimo di restauro aggressivo e mutilatore. Grimthorpe jr. aveva acquistato e restaurato a Ravello sia villa Cimbrone (anche questa “antichizzata” in maniera neogotica-moresca) sia la Rondinaia, unite in una sola tenuta fino agli anni Quaranta (poi, a disegnare il parco, era accorsa una illustre giardiniera: Vita Sackville-West).  

 

Ma a Roma, Fellini chiamava notoriamente Vidal “Gorino”, mentre erano vicini di studios a Cinecittà, Fellini lavorando alla “Dolce vita” e Vidal alla problematica sceneggiatura di “Ben Hur”, che sarebbe un film a sé (Vidal non è mai stato accreditato; fu spedito in Italia ad aggiustare uno script che non funzionava, accettò a patto che la MGM lo lasciasse poi libero per sempre di scrivere solo i suoi libri. Considerava Charlton Heston un subumano, e trasformò la vicenda tra Ben Hur e Messala in una storia d’amore, senza che nessuno se ne accorgesse. “E come la mostreresti questa storia d’amore?”, chiede il produttore stravolto. “Senza mai parlarne, non ci sarà una sola battuta del dialogo a cui qualcuno possa fare obiezioni, tutto sarà nelle loro reazioni. Dai miei giorni in televisione, pesantemente censurata, avevo imparato a creare dei dialoghi che sembrassero una cosa per significarne tutta un’altra”).  Fellini metterà poi Vidal in una scena del suo “Roma”, dove lo scrittore americano, seduto su una seggiolina in mezzo al casino della festa de Noantri di Trastevere, darà quella che rimane una delle migliori definizioni mai create della sfortunata città: “Roma è la capitale delle illusioni; la Chiesa, il cinema, la politica. Morta e rinata tante volte, è il posto perfetto per vedere se la fine del mondo arriva veramente, oppure no”. 

 

C’è una foto di Vidal con Arbasino e Calvino ai Fori imperiali, dove i due scrittori italiani sembrano scomparire dalla foto, perché Vidal (che pure aveva lanciato Calvino in America) volteggiava in un’altra dimensione. Scrittore, politico, jet setter washingtoniano, ospite televisivo fisso dei network statunitensi; e specie di Lord Gran Ciambellano di quella speciale camera dei lord gay – Auden Isherwood Tennessee Williams Jean Cocteau Truman Capote Rudolf Nureyev e tanti altri – che ha lasciato così tante memorie artistiche novecentesche– ma lui però senza l’affanno, senza l’autodistruzione. 

 

Nasceva appunto “patrizio” nel Paese senza patriziato, e dove ci si impegna dunque maggiormente per esserlo. Cadetto di West Point, il padre era Eugene Luther Vidal, personaggio che pare uscito da un libro di Philip Roth, fondatore di linee aeree, istruttore a West Point, campione olimpico, capo dell’aviazione civile durante gli anni del New deal. Il nonno era il senatore democratico Thomas Gore dell’Oklahoma, la mamma un’attrice. Poi c’era la complicata ma esiziale parentela con la Casa reale: il primo dei tre mariti della mamma di Vidal si era risposato con la mamma di Jackie Kennedy. Così alla Casa Bianca  Vidal ci pranzava spesso. Almeno fino al 1961, quando ne fu estromesso dopo una famosa cena in onore di Gianni Agnelli, in cui Vidal si prese troppe confidenze con la first lady. Pare che le avesse messo una mano su una spalla, e Bobby Kennedy l’avesse fatto cacciare; “tu, uno scrittore? Ma noi Kennedy gli scrittori li compriamo”. Segue diverbio. Non si sa se sia andata veramente così, ma era quello che raccontava Truman Capote,  suo arcinemico, il quale alimentò la leggenda della sua sfortuna a corte, fu querelato, pagò i danni, in un processo più chic degli odierni Depp-Heard con cacche umane o canine sui letti.  Tra loro la rivalità fu eterna e violenta, i massimi scrittori gay americani, uno autodistruttivo e self-made, l’altro aristocratico e sempre un po’ nel closet. 

 

Altro grande “trial” di Vidal fu infatti quello contro William Buckley  che lo definì “una checca” in prime time. Cause e controcause, duelli televisivi nelle elezioni presidenziali del 1968 scelte scaltramente dalla ABC come scontri tra lo scrittore conservatore e l’autore di Myra. Fecero sognare pubblico e auditel (ci sono libri e film sul processo e sulla serie di talk). Ma Vidal rifiutava l’etichetta di “gay”, sostenendo che farsi etichettare equivaleva a farsi intrappolare. Sosteneva piuttosto che si è tutti bisessuali, un atteggiamento comune a tanti della sua generazione. 

 
Né lo avrebbe mai trascinato in tribunale Howard Austen, marito per decenni, anche se programmaticamente i due non consumavano “perché le uniche relazioni che durano sono quelle in bianco”, teorizzava Vidal. Lui era rimasto fedele tutta la vita piuttosto a un fantasma, il suo compagno di college e commilitone, Jimmy Trimble, morto nella battaglia di Iwo Jima nel 1945, e poi santificato e trasfigurato in ossessione e immaginetta in coppa al letto alla Rondinaia oltre che in tutti gli scritti vidaliani.

 
A Los Angeles, invece, “viveva col maggiordomo Fernando che ti accoglieva alla porta”, racconta al Foglio Francesco Vezzoli, che nel 2005 ingaggiò Vidal per un remake del “Io, Caligola” di Tinto Brass, divenuto "Trailer for a remake of Gore Vidal’s Caligula", che andò alla Biennale. “Mi fece attendere in una sala con le foto di Hillary Clinton, la principessa Margaret, Paul Newman, insomma il meglio che c’era nei diversi ambienti: royalty, Hollywood, politica. Io, che ero giovane e intimidito, ero lì per convincerlo a partecipare al mio progetto. ‘Sì, sì, facciamolo. Sarò il tuo Svetonio’, rispose lui, sbrigativamente. Poi, per intimidirmi ulteriormente, disse che ‘Oliver’, cioè Stone, era appena stato lì perché stava girando ‘Alessandro il Grande’, e allora disse che s’era raccomandato, ‘Oliver,  niente toghe candide e perfettamente stirate che fanno subito ‘sandaloni’. Ricordati che gli antichi romani non avevano i lavasecco’”. 

 

Il successo Vidal l’aveva raggiunto col terzo romanzo, “The city and the pillar” (in italiano, “La statua di sale”), che sdoganò per la prima volta l’amore gay tra ragazzoni americani middle class e non creaturine della notte prossime al suicidio. Bannato immediatamente dalla letteratura ufficiale, si buttò su Hollywood con grande successo. Poi tornò ai libri realizzando tra l’altro un ciclo storico che entrò nelle finestre delle sane famiglie americane che l’avevano buttato fuori dalla porta per gli scandali. Grazie a colossali ricerche storiche mixate però con i più brillanti dialoghi hollywoodiani, “Narratives of Empire” è un ciclo di sette romanzi pubblicati tra il 1967 e il 2000, una storia della repubblica statunitense, dai suoi albori fino alla seconda guerra mondiale. “Burr” (1973), “Lincoln” (1984), “Il candidato” (1976), Impero (Empire, 1987), “Hollywood” (1990), “Washington D.C.” (1967) e “L’età dell’oro” (2000). Le narrative sull’impero statunitense affiancavano apparentemente senza continuità quelle sull’antica Roma e il mondo classico che lo appassionavano (“Il giudizio di Paride”, 1953; “Giuliano”, 1964, “Creazione”, 1981) in una colossale cosmogonia tra Atene, Capri, e il Potomac.
 

La politica e lo show business insieme erano del resto la sua cifra. A ogni livello. “Mi chiedeva della politica italiana, sosteneva che Almirante fosse gay, che lo si poteva incontrare in certi bagni equivoci…”, racconta ancora Vezzoli.  Aveva sviluppato la passione narrativa leggendo romanzi la sera al nonno cieco, il senatore Thomas Gore che poi gli aveva passato il nome. Con la politica però era destinato a rimanere un amateur: si candidò senza successo alla Camera nel 1960 nel seggio di New York e poi come senatore della California in una leggendaria campagna tra Los Angeles e San Francisco nel 1982, supportato dai vecchi amici Eleonor Roosevelt, Paul Newman e Joanne Woodward (in Rete si trovano ancora rari “pin” con Vidal for Congress. Anche lì film e documentari). Perse anche quella volta.


Il Vidal ultima fase divenne noto soprattutto come saggista e commentatore politico contro – si direbbe oggi – il mainstream (solo che allora il mainstream non era l’antiamericanismo). “La fine della libertà” (2001), “Le menzogne dell’impero” (2002),  e “Democrazia tradita” (2004), sono tra gli ultimi suoi libri. Dopo una fase di relativo oblio venne riscoperto e ristampato infatti nei primi anni Duemila per i suoi acuminati discorsi contro l’amministrazione Bush  jr. (“l’uomo più stupido mai visto”) continuando a condannare la politica espansionista della Casa Bianca, l’entrata nella Seconda guerra mondiale, e financo l’11 Settembre. “Dopo la Seconda guerra mondiale gli Stati Uniti sono diventati la prima potenza mondiale, economicamente e militarmente. Harry Truman, l’allora presidente, decise di tenere il paese perennemente in allerta militare. Il risultato è un debito pubblico di 4 trilioni di dollari. Non abbiamo un’istruzione pubblica. Né la sanità. Ma abbiamo sempre due o tre guerre in ballo. E stiamo andando indietro, indietro, indietro”.

 

Disse che l’attentato di Oklahoma City (il più cruento avvenuto sul suolo americano prima dell’11 Settembre, 168 morti nel 1995, commesso da un veterano della Guerra del Golfo con cui Vidal si scrisse a lungo, in un rapporto simile a quello di Capote con gli assassini di "A sangue freddo", tutti poi finiti sul patibolo), era stato un complotto dell’Fbi. Deplorava le grandi banche e l’imperialismo americano e oggi probabilmente sarebbe in prima fila a denunciare il declino americano (e chissà, se avesse avuto twitter; e chissà, se fosse ancora vivo oggi rischierebbe di finire intervistato da Giletti magari dalla Rondinaia, sostenendo che in fondo Putin ha le sue ragioni. Oppure sarebbe uno dei pochi sostenitori dell’America di Biden). Disse in un’intervista alla Bbc del 1993: “Sono un populista. Discendo da una lunga linea di tribuni del popolo. E credo che il governo, per avere qualche senso, dovrebbe appartenere al popolo, non a élite di qualsiasi tipo”. Da vero aristocratico, considerava aristocrazia e  popolo, e niente in mezzo.

 

Fu soprattutto in Italia, sua patria eletta, che visse quest’ultima frase di ritrovata rilevanza. L’editore Elido Fazi ristampò tutti i suoi vecchi libri e incoraggiò i nuovi. Riuscì ad accaparrarsi Vidal perché fu l’unico a trattarlo come lo scrittore avrebbe voluto, cioè da divo planetario. Gli mandavano taxi a prenderlo a Ravello, raccontano. “Lessi la Statua di sale, scoprimmo che era libero dai diritti. Ma il suo agente ci disse che Vidal voleva prima conoscere l’editore. Così partii per Ravello, e nacque una specie di amicizia”, racconta Fazi al Foglio. A Roma Vidal cominciò a frequentare la casa dell’editore a via Cortina d’Ampezzo, dove si tenevano i meglio party editoriali degli anni Duemila in città, ma ne deprecava la lontananza dal centro e “l’ascensore. Scomodo”.  “E scendeva soltanto all’hotel d’Inghilterra, dietro piazza di Spagna, il suo preferito”. Celebre una nota spese di 1.400 euro dal bar dell’albergo, per gli scotch. “Ma spesso pagava lui”. A un certo punto, in casa editrice, ci raccontarono,  sorse una vera rivolta sindacale, “meno taxi per Vidal!”, che lo divertì molto. Avrebbe voluto passare gli ultimi anni a Roma, ma la morte del compagno nel 2003 lo convinse a rimanere a Los Angeles. Anche la sua notevole eredità, stimata in 37 milioni di dollari, venuto a mancare Austen andò tutta all’università di Harvard; un po’ bizzarro per il fustigatore delle élite. E per un ateneo che lui peraltro non aveva mai frequentato, perché scelse di partire volontario per la Seconda guerra mondiale, e al suo ritorno, coi romanzi pubblicati e la celebrità, “mi pareva un po’ strano rimettermi sui banchi di scuola”. Pare che avesse incredibilmente un complesso verso il pezzo di carta: ma forse quel lascito significava piuttosto un ideale ritorno a casa, nel cuore dell’aristocrazia americana e globale.

  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).