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Il rebus America tra Trump e Mamdani
Una volta ci si chiedeva perché non c’è il socialismo negli Stati Uniti, oggi Mamdani vince a New York. E il presidente americano è pronto a rendergli la vita difficile: “Avrà problemi con Washington come nessun altro sindaco nella storia della nostra città, che fu una volta grande"
Verso la fine dello scorso millennio, mi capitò di assistere a un curioso scambio di battute alla Casa bianca tra il presidente di allora e la stampa. “Certo devo fare attenzione. Se mi definissi ‘socialista’ qui in America, avrei qualche problema con i miei elettori”. Così Bill Clinton, in risposta alla domanda di un giornalista che gli chiedeva se non lo imbarazzava ostentare tanta affinità di vedute con il capo di un governo europeo in visita alla Casa bianca. Il presidente del Consiglio in visita era Massimo D’Alema. Battuta ovvia quella di Clinton. Anzi scontata. Non fosse che qualcuno al seguito di D’Alema, o perché non l’aveva capita, o perché voleva strafare, aveva cercato di convincere i colleghi venuti dall’Italia che si trattava di un riconoscimento e un apprezzamento, da parte del presidente Usa, al collocamento politico del suo interlocutore, non di una presa di distanza.
Socialist, communist, nel discorso politico, anzi nel senso comune politico americano, sono termini tabù. A guisa degli insulti, delle parolacce. Spesso sono sinonimi. Senza troppe sottigliezze. Così come, nella Germania degli anni 30, il linguaggio politico nazista aveva buon gioco a mettere nello stesso sacco comunisti e socialdemocratici (benché socialdemocratici e comunisti fossero tra di loro ai ferri corti, si odiassero a morte, si dessero dei fascisti l’un l’altro). Per la lingua del Terzo Reich “marxista”, “bolscevico”, ed “ebreo” erano intercambiabili. Si salvava il termine “socialista”. Perché figurava al nome stesso del partito, accanto al termine “lavoratori” (Partito nazionalsocialista dei lavoratori tedeschi). In America brutte parole sono rimaste, quasi da sempre, anche il termine leftist, “di sinistra”, o il termine radical, che sta per “estremista”. Gli fa venire in mente l’immagine di sovversivi e dinamitardi “rossi”, di Black Panthers armati, di sommosse razziali. Trump e i suoi parlano comunque solo di radical left, è scomparso il concetto di radical right, estremismo e sovversivismo di destra.
L’antipatia americana verso la parola “socialista” è uno dei tratti fondanti dell’“eccezionalismo americano”, di quel che renderebbe l’America diversa – superiore e migliore – di tutti gli altri. E’ un’avversione antichissima. Risale a ben prima della guerra fredda, degli anni della sfida tra Usa e Urss. Anzi a ben prima della Rivoluzione d’ottobre in Russia. Antecede di oltre un secolo l’avvento di Trump e della sua destra rabbiosa e vendicativa.
Era il 1906 quando il sociologo tedesco Werner Sombart scrisse, dopo un viaggio di studi in America, il saggio in cui si interrogava sul "Perché negli Stati Uniti non c’è il socialismo?" (Bruno Mondadori 2006, con una bella introduzione di Guido Martinotti). Saggio datatissimo. Molto discusso e criticato, da destra e da manca, fino ai giorni nostri. Alcune delle sue spiegazioni reggono ancora, a cominciare dal celebre: “Di fronte al roastbeef e all’apple pie tutte le utopie socialiste vennero meno”. Altre non convincono più. Quel che periodicamente torna di attualità è l’interrogativo. Dopo la clamorosa elezione del trentaquattrenne Zohran Mamdani a sindaco di New York andrebbe però rovesciato. Lo riformulerei così: “Perché continua ad esserci socialismo negli Stati uniti?”. Per giunta, guarda un po’, proprio nel momento in cui, nella vecchia Europa in cui erano nati, socialismo e socialdemocrazia paiono in declino irreversibile. E nel momento in cui alla Casa Bianca c’è un Trump mangiademocratici che rischia di dilagare in un terzo mandato. Un socialista sindaco della capitale mondiale del capitalismo. Malgrado questo, o proprio per questo?
Nella politica americana tertium non datur. Gli elettori sono registrati come democratici o come repubblicani. Mamdani era il candidato dei democratici, dopo aver battuto alle primarie democratiche l’ex governatore democratico dello Stato Andrew Cuomo. Ha vinto alla grande, con oltre un milione di voti, oltre il 50 per cento dei voti espressi. Bisogna risalire all’elezione di John Lindsay, nel 1965, per trovare un sindaco che riceve oltre un milione di voti. Se si volessero fare i conti della serva delle nostre discussioni casalinghe sul “campo largo”, al 50 per cento di Mamdani bisognerebbe aggiungere il quasi 40 per cento del democratico Cuomo, che si era presentato come indipendente dopo essere stato bocciato alle primarie. Il candidato repubblicano, il “vigilante” dei Guardian angels col berretto rosso Curtis Sliwa, appena il 7 per cento. Causa vecchi litigi, non godeva nemmeno dell’appoggio di Trump, il quale aveva dato indicazione di votare per Cuomo. Deduzione paradossale (ma nemmeno tanto): divisi, i democratici fanno l’en plein, uniti forse avrebbero perso.
Sento obiettare: Bella forza, New York non è l’America. E’ una roccaforte democratica incrollabile, molto più di quanto non lo sia la Toscana “rossa”. Verissimo, New York non è l’America. Ma non è affatto scontato che lì debbano vincere i democratici, o il centrosinistra che dir si voglia. Quanto a mobilità elettorale tra destra e sinistra, tra democratici e repubblicani, non è seconda a nessuno. Vivevo a New York, da corrispondente per l’Unità, quando divenne sindaco il repubblicano Rudy Giuliani. Prima faceva il procuratore (pubblico ministero) del distretto Sud della città, quello in cui si trova Wall Street. Era il “terrore dei colletti bianchi”, dei manager e dei politici corrotti. Aveva fatto una campagna tutta ordine e legalità, negli affari come in politica. Ero corso a intervistarlo, appena eletto, a casa sua. Che fossi corrispondente dell’allora organo del Pci non lo turbava per niente. Mi aveva accolto in cortile. Venivamo continuamente interrotti dal figlioletto che giocava a pallone. Mi aveva fatto una buona impressione. Non immaginavo che sarebbe finito a fare il sicofante di Trump, né i successivi guai giudiziari che lo avrebbero reso impresentabile anche per i trumpiani. Un sindaco successivo, Michael Bloomberg, era stato eletto tre volte correndo per i repubblicani. Nella vita precedente, da editore dell’oracolo economico di Wall Street, era invece democratico. Il votatissimo Lindsay, nel 1966 era stato eletto sindaco in quanto repubblicano. Per il mandato successivo, nel 1971, aveva cambiato casacca, presentandosi come democratico. Cose che succedono a New York…
A proposito di spostamenti vertiginosi, salto della quaglia da un capo a quello opposto dello spettro politico, il Novecento ce ne ha forniti di strepitosi, su una sponda e l’altra dell’Atlantico. Estrema sinistra che diventa estrema destra, e viceversa. Un caso in argomento è proprio quello del Sombart che si era dato tanto da fare per spiegare il mistero del perché negli Stati uniti non si è mai formato un grande partito operaio, di sinistra. Dopo l’esordio marxista (di lui Engels diceva che era l’unico ad aver capito Il Capitale di Marx), socialista, organicamente di sinistra, Werner Sombart negli anni 30 aveva finito con l’avvicinarsi al nazismo. Cose che succedono. E non solo in America…
La storia della politica americana è lastricata di cambi repentini di trincea, di sinistre che assomigliano a destre, e viceversa, di impennate populiste e populismi contrapposti. Trump è repubblicano, è la destra. Ma una destra ben diversa da quella di George Bush padre, di Ronald Reagan, persino di Nixon. I figli continuano ad appendere i ritratti dei padri, ma non si riconoscono più nelle loro fattezze dei padri. I padri, tornassero in vita, disconoscerebbero e diserediterebbero i figli.
Hanno conosciuto popolarissimi populismi di destra, come il cosiddetto “populismo segregazionista” di George Wallace, governatore dell’Alabama all’epoca dei movimenti per i diritti civili, che pescava nel risentimento delle classi lavoratrici del Sud contro i neri e il governo federale a Washington. E populismi progressisti, che hanno lasciato un segno ancora più profondo, come quello del New Deal di Franklin Delano Roosevelt. Non hanno mai avuto un partito e un movimento socialisti, una sinistra simile a quella europea. Ma hanno avuto guerre di classe, lotte sindacali, più dure e sanguinose di quelle europee. Alcune sfociarono in sparatorie ed eccidi di massa, vere e proprie battaglie campali. Succedeva soprattutto quando gli immigrati dall’Irlanda o dalla Germania se la prendevano con il governo e i padroni che si avvalevano di nuovi immigrati a più basso costo in fuga dai pogrom e dalle guerre dall’est europeo, dalla miseria dell’Italia o dalla Cina. Il populismo xenofobo trumpiano non è un’improvvisazione. Ha le sue radici profonde.
Si sentono da più parti inviti accorati alla sinistra e all’opposizione di casa nostra a non montarsi la testa, a non precipitarsi “a fare come in America”, a non cadere nella trappola del populismo. Giustissimo, figurarsi. Mamdani non è probabilmente il modello giusto nemmeno per la riscossa in America. Gli altri schiaffi a Trump in quest’ultima mini tornata elettorale sono arrivati da poli opposti della galassia democratica Usa. Ma il fenomeno Mamdani alcune lezioni da dare le ha. Anche se sono diverse da quelle che i più immaginano, e alcuni esorcizzano. Ce l’ha fatta perché è un leader nato, fresco e nuovo, sorridente, con l’aria simpatica, sprizzante energia e soprattutto ottimismo. Il physique du rôle non è tutto, ma ha la sua importanza. Fu a suo tempo l’elemento decisivo che, dopo un memorabile confronto in televisione, diede la vittoria al giovane Kennedy contro la vecchia volpe Nixon. Simpatia e antipatia sono fattori politici. In America più che altrove gli elettori votano contro qualcuno piuttosto che per qualcuno. A New York, esattamente come nella presidenziali dell’anno scorso, hanno votato evidentemente soprattutto contro qualcuno che non sopportavano più: l’establishment democratico consolidato, sicuro di sé al punto di autodistruggersi, rappresentato nel 2016 da Hillary Clinton, nel 2024 da Biden e Harris, a New York da Andrew Cuomo. Mi si potrebbe obiettare che Trump, sempre più ingrugnito e incattivito, non è né nuovo né simpatico. Poteva però esibire un marchio preciso, il tipo di cosa che ai consumatori fa preferire l’originale, il prodotto di marca, piuttosto che il generico incolore.
Anche Mamdani ce l’ha fatta grazie al marchio, anche se di segno opposto. O, se preferite, ce l’ha fatta a dispetto del marchio. A pensarci bene è la stessa cosa, l’importante è che il prodotto offerto abbia una sua personalità. Figlio di immigrati indiani, nato in Uganda, islamico, di colore, dichiaratamente di sinistra, ce le aveva tutte per essere ostracizzato. Gli mancava solo essere pure donna o gay. E’ riuscito a farsi eleggere sindaco in lista democratica, presentandosi esplicitamente come “socialista”. Non ha mai smentito l’affiliazione alla formazione combattiva, ultimamente in ascesa, ma decisamente minoritaria, dei Socialisti democratici d’America (Dsa). Anzi, se ne dice fiero. “Socialista democratico” in America non vuol dire essere moderati, come fu a lungo nell’uso del dizionario politico italiano (“comunisti” contro “socialdemocratici”). Vuol dire essere francamente “di sinistra”. Rappresenta un handicap storico, tipo quello che per decenni fu in Italia il “fattore K”, il fattore non dichiarato che impediva al Pci di andare al governo, per quanto cumulasse successi elettorali, dimostrasse di saper governare bene città e regioni.
Trump gliel’ha giurata, cogliendo al balzo l’occasione di mirare a quello che considera il punto debole degli avversari. Più si fa strada l‘idea che la vittoria di Mamdani a New York possa essere l’inizio di una riscossa a livello nazionale, più gli fa gioco, gli consente di tacciare di “estremismo di sinistra” l’intera opposizione democratica. Già lo dileggiava come “il mio comunistello”. Ora dice che quel “comunista” di Mamdani “avrà problemi con Washington come nessun altro sindaco nella storia della nostra città (New York), che fu una volta grande”. Tradotto: non riceveranno più un dollaro, li manderemo in bancarotta, li prenderemo per fame. Pesante. Una minaccia di punizione a un’intera città. Anche se non è chiaro se abbia i poteri per metterla in atto. New York raccoglie e versa più tasse di quanto gli arrivino fondi da Washington. Le imposte sono già più alte che in qualsiasi altra città americana. Senza contare che minacce del genere possono avere un senso prima di un’elezione, non dopo che l’elezione c’è stata (in Argentina ad esempio ha funzionato che avesse detto “niente più dollari se non vince Milei”).
Mamdani ha avuto un bel coraggio a replicargli di non essere affatto “comunista” ma “un socialista democratico”, uno che crede “nella dignità per tutti”. In effetti ha vinto su un programma non ideologico ma concreto, tangibile, di buona amministrazione, di alloggi abbordabili, affitti calmierati, salario minimo (a 30 dollari all’ora), asili nido, trasporti gratis (e che funzionino) per tutti, più tasse per i ricchi per poter pagare tutto questo. Rivendica di essere erede dei sewer socialists, i “socialisti delle fogne”, come amavano definirsi i sindaci socialisti di Milwaukee, il “cuore rosso” del Wisconsin, governata per oltre metà del Novecento dalla sinistra. All’inizio il termine gli era stato appioppato per irrisione. Loro se n’erano appropriati con orgoglio, dicendo che sì, costruivano fogne, strade, case popolari, scuole, infrastrutture e sistemi di trasporto pubblico. “Essere sewer socialists significa che vogliamo promuovere i nostri ideali, non indottrinando la gente su quanto siano corretti, giusti, ma facendo le cose”, ha detto Mamdani. Insomma fogne che funzionino, non chiacchiere sulla lotta di classe. Il suo modello dichiarato è il leggendario sindaco degli anni del New Deal, l’immigrato italiano Fiorello La Guardia. Che era repubblicano, non era di sinistra, ma “governava come un socialista”. Oltre a dotare tutti e cinque i boroughs della città, anche quelli più poveri e malfamati, di ponti, strade, parchi da gioco e piscine, oltre a rendere pubblici e unificare la rete dei trasporti (vanto e modello per il resto del mondo), La Guardia e il suo altrettanto leggendario assessore Robert Moses avevano introdotto edilizia popolare a tutt’andare e rent control.
Per Trump tutto questo non fa alcuna differenza, sono sottigliezze irrilevanti. Piani regolatori e servizi pubblici erano la sua bestia nera già quando faceva il costruttore in città. Per lui chiunque minacci o rallenti con regolamentazioni i grattacieli – e il business in generale, il suo in particolare – è un pericoloso attentatore. Apocalittico, ha profetizzato: “La gente comincerà a lasciare New York, fuggiranno dal regime comunista di Zohran Mamdani”. Aveva già dato della “comunista” alla sua avversaria democratica alle presidenziali, Kamala Harris. Prima ancora, così aveva tacciato Hillary Clinton. E persino Obama. Non solo esponenti democratici eletti dichiaratamente di sinistra come Bernie Sanders, o Alexandria Ocasio-Cortez. Trump è fatto così: parla per iperboli. E’ in larga compagnia. Per Trump, e per il suo pubblico, come per le destre nostrane, tutto quello che non è di destra destra, destra becera, non può che essere ipso facto, per definizione, “estremismo di sinistra”.
La “lezione” più importante della sorpresa Mamdani a New York è però un’altra ancora. L’essere riuscito a mettere insieme, attorno alla propria candidatura, una coalizione, un mix diversificato, eterogeneo, a prima vista improbabile. Giovani e anziani, poveri e classi medie che si sentono impoverite dall’inflazione, bottegai e quant di Wall Street, etnie diverse che normalmente si guardano in cagnesco (non mi stupisce che nei quartieri dove vivono gli ebrei ortodossi abbiano votato quasi tutti per il suo rivale e anti-Pal Cuomo, mi sorprende semmai che abbiano votato per il pro-Pal Mamdani un terzo degli elettori ebrei di New York). Tra i miracoli c’è l’essere riuscito, una volta tanto a unificare, entusiasmare la “sua” sinistra, in genere litigiosamente frammentata come lo sono (forse geneticamente?) tutte le sinistre del mondo. In democrazia. Nessuno, mai, vince da solo. Non esistono blocchi monolitici. Vince chi è capace di coalizzare aree, sensibilità, interessi, orientamenti politici diversi, costruire e tenere insieme un blocco vincente. Anche quello trumpiano è un blocco eterogeneo. E’ la politica, bellezza!