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lo scenario

Erdogan vuole passare da semplice osservatore a parte attiva nel conflitto fra Israele e Hamas

Stefano Mazzola

La Turchia vuole convertire la propria influenza su Hamas in capitale politico, offrendo al presidente turco la possibilità di rafforzare il proprio profilo dentro e fuori i confini nazionali. Intanto il paese attraversa la fase più autoritaria della sua storia recente

Per due anni, la Turchia è stata tra i  critici più feroci dell’offensiva militare israeliana su Gaza e le operazioni contro i suoi nemici in medio oriente. Oggi, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan si propone come mediatore chiave del fragile cessate firmato a Sharm el Sheikh e del piano di pace che ne è conseguito. Solo lo scorso giugno, quando l’aeronautica israeliana attaccava i siti e le menti dietro lo sviluppo del programma nucleare iraniano, il ministero degli esteri di Ankara parlava di “provocazione funzionale alla politica strategica di destabilizzazione che Israele sta portando avanti nella regione”. Ma al vertice “per la pace”, tenutosi nel giorno del rilascio degli ultimi venti ostaggi israeliani rimasti in vita, Erdogan, seduto accanto a Donald Trump nel tavolone a quattro con Egitto e Qatar, è stato più volte elogiato per il contributo dato dai turchi alla riuscita dell’accordo. 

Il passaggio da un linguaggio ostile nei confronti dello stato ebraico all’assunzione di responsabilità e di un ruolo centrale nei colloqui non rappresenta un cambio di rotta, bensì una mossa calcolata. Convertire la propria influenza su Hamas in capitale politico rientra nel modus operandi di Ankara. Una postura che, da anni, permette alla Turchia di posizionarsi al centro di numerose contese nel suo estero vicino e non solo. Nell’esercizio della propria influenza, i canali diplomatici e quelli più riservati degli apparati di intelligence “si fondono in un sistema fluido e transazionale, che consentono a Erdogan di presentarsi come leader capace di parlare con tutti e di ottenere concessioni spendibili sia in patria sia negli Stati Uniti di Trump, dal dossier siriano alle forniture militari”, racconta intervistata al Foglio Ezgi Basaran, giornalista e politologa presso l’Università di Oxford, dove insegna politica del medio oriente e del nord Africa. 

Per cogliere la visione di lungo periodo che guida la politica estera turca, serve riconoscerne la natura bifronte. Riccardo Gasco, dottorando ricercatore all’Università di Bologna e coordinatore del programma di politica estera presso il centro di ricerca IstanPol di Istanbul, intervistato dal Foglio, sostiene che: “Da un lato, la retorica dai toni massimalisti serve a consolidare un elettorato interno sempre più fragile, facendo leva su un linguaggio nazionalista e identitario. Dall’altro, l’approccio pragmatico mira a mantenere la Turchia al centro delle principali crisi regionali, con l’obiettivo di consolidare la propria autonomia e rilevanza internazionale. Gaza ne è un esempio emblematico”. Ankara è riuscita a realizzare la propria ambizione di passare da semplice osservatore a parte attiva del conflitto fra Israele e Hamas. Un cambiamento profondo che, dal punto di vista di Erdogan, segna una svolta nella traiettoria politica turca e della sua stessa leadership. “Il messaggio implicito che i turchi hanno fatto filtrare è stato, in sostanza: abbiamo accesso, credibilità e canali con entrambe le parti del conflitto, se ci includete nel quadro postbellico, possiamo aiutarvi a controllare l’escalation e a plasmare il dopo”, continua Basaran. La mediazione su Gaza offre così a Erdogan la possibilità di rafforzare il proprio profilo, dentro e fuori i confini nazionali, presentandosi come leader capace di esercitare influenza su una delle crisi più complesse del medio oriente. 

Alla stregua di quanto avvenuto in Libia e poi in Siria, anche a Gaza la Turchia è riuscita a consolidare, agli occhi delle cancellerie europee, l’immagine di attore indispensabile nella gestione delle crisi più complesse. Al punto che, oggi, gli Stati Uniti le riconoscono un posto stabile ai tavoli dove si decidono i dossier più delicati. Un riconoscimento che Ankara ha saputo capitalizzare, accrescendo la propria influenza e ridisegnando i termini di una relazione con un occidente che non privilegia più la democrazia e i diritti umani, ma antepone la sicurezza e la cooperazione militare al sostegno di principio per lo stato di diritto. Emblematico, in tal senso, il recente viaggio in Turchia del primo ministro britannico Keir Starmer: nel corso della visita, non una sola parola è stata spesa sull’arresto del sindaco di Istanbul, Ekrem Imamoglu, il cui partito, il Chp, appartiene alla stessa famiglia politica del Labour a livello europeo, il Pse. In compenso, Londra ha firmato un accordo da 8 miliardi di sterline con la Turchia per la fornitura di venti caccia Typhoon di seconda mano.

L’intransigenza di Erdogan su Israele è dunque autentica e genuina, e muove dall’immedesimazione con la sofferenza del popolo palestinese e dalla comune adesione con Hamas all’ideologia della Fratellanza musulmana. Tuttavia, l’abilità e il pragmatismo che contraddistinguono la sua leadership permettono di trasformare l’indignazione morale in strumento politico. “L’immagine di difensore delle cause musulmane continua a parlare all’elettorato conservatore turco, ma dietro questa dimensione simbolica si nasconde anche un interesse tangibile. I progetti di ricostruzione a Gaza e in Siria, finanziati con capitali del Golfo, rappresentano un’occasione economica importante per le imprese turche e una fonte di consenso per il presidente”, dice al Foglio Berk Esen, professore di scienze politiche dell’Università Sabanci di Istanbul.

Eppure, dietro la vetrina del successo diplomatico, la posizione di Ankara resta tutt’altro che semplice. I funzionari israeliani continuano a ribadire ai loro interlocutori americani che non intendono avallare un coinvolgimento diretto della Turchia, né tantomeno la presenza delle sue truppe sul terreno. La squadra degli operatori della protezione civile Afad, predisposta da Ankara per assistere Hamas nel recupero dei corpi degli ostaggi israeliani e aiutare i palestinesi a seppellire i propri morti, non ha ancora ottenuto l’autorizzazione a entrare nella Striscia. Dopo aver agito per limitare l’estensione dell’influenza turca in Siria, Israele non vuole certo trovarsi a contatto con i turchi a Gaza. “E’ difficile immaginare che, nel breve periodo, Ankara riesca a passare da una presenza simbolica a una responsabilità gestionale nel campo della logistica, del coordinamento dei confini o della ricostruzione iniziale della Striscia. Perché questo possa succedere, sarà indispensabile la cooperazione con l’Egitto, il beneplacito di Israele e il sostegno finanziario del Qatar”, spiega Basaran.

La Turchia rimane inoltre un partner difficile da integrare sul piano politico e istituzionale, soprattutto per l’Unione europea. Sebbene Ankara sia tornata a essere considerata un attore strategico nella politica estera e di sicurezza dell’Unione, pesa ancora il completo congelamento dei negoziati di adesione. Secondo Gasco, “nei corridoi europei prevalgono diffidenza e cautela: manca la fiducia reciproca e gli stati membri si muovono secondo logiche bilaterali. Il dialogo esiste, ma resta sotto traccia. La paura è quella di un improvviso voltafaccia turco, che finisca per azzerare i progressi compiuti recentemente”. Mentre l’economia turca resta sotto pressione, l’apparato militare e di sicurezza è dispiegato contemporaneamente su molteplici fronti, dalla Siria alla Libia, fino al Caucaso, ponendo un problema di sostenibilità. “In queste operazioni la Turchia ha investito ingenti risorse economiche, militari e politiche. Se l’obiettivo di ampliare la propria influenza può dirsi raggiunto, i risultati sul campo restano però diseguali. In Libia l’intervento ha portato vantaggi limitati. In Siria ad alcuni successi, ma a costi altissimi, anche sul piano migratorio e finanziario. Nel Caucaso, invece, il ritiro russo ha permesso ad Ankara di raggiungere i propri obiettivi, e lì sì, si può parlare di un vero successo”, osserva Esen.

“Nonostante gli apparati turchi vengano descritti come mediatori abili ed efficaci e Erdogan goda di un’immagine internazionale di leader efficace e risoluto, il paese attraversa oggi la fase più autoritaria della sua storia recente. Quasi ogni giorno un artista, un giornalista o un imprenditore viene arrestato con accuse pretestuose di istigazione all’odio, offesa allo stato o al presidente, o con vaghi pretesti di corruzione”, spiega Basaran. Negli ultimi anni, tuttavia, Erdogan si trova a operare in uno spazio politico progressivamente più ristretto. Le sconfitte nelle elezioni municipali del 2024 e la più recente sconfitta del suo alleato Ersin Tatar a Cipro Nord hanno segnato un arretramento simbolico importante, aggravato dal malcontento per l’inflazione e dall’aumento del costo della vita. “Con un consenso ai minimi storici, la politica estera resta la leva più efficace per tentare di recuperare terreno. Gaza rappresenta in questo senso un tema cruciale: Erdogan non può permettersi di apparire inattivo, perché anche pochi punti percentuali possono fare la differenza”, conclude Esen. Lo ha dimostrato il voto amministrativo del 2024, quando lo scontento dell’elettorato islamista per posizioni giudicate allora troppo morbide sulla questione di Gaza contribuì alla perdita di consensi e alla vittoria travolgente dell’opposizione.  
 

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