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l'intervista
La rabbia finisce nei romanzi, senza rivalse
Un’adolescenza sofferta in Giamaica, le umiliazioni professionali prima del successo. E oggi il tifo per Mamdani: “Se fosse eletto sindaco di New York darebbe il segnale di svolta di cui l’America ha bisogno”.
Quando ha vinto il Booker Prize con Breve storia di sette omicidi, Marlon James si è trovato improvvisamente a far parte del mondo dei glitterati, il microcosmo luminoso e litigioso degli autori di successo. Sin dal primo momento ha vissuto con autoironia l’inaspettata condizione di privilegio, senza dimenticare tuttavia la lunga serie di umiliazioni che aveva vissuto fino a quel momento: il suo libro di esordio, intitolato Il diavolo di John Crow, era stato rifiutato da 78 editori prima di essere accettato dalla Akashic Books, una piccola casa basata a Brooklyn, e il successivo Le donne della notte, oggi ammirato per la potenza del linguaggio e l’acume dell’introspezione psicologica, era stato etichettato come “sensazionalistico” e “provinciale”. Persino Breve storia di sette omicidi, prima del trionfo al Booker, ha avuto un’accoglienza contraddittoria, e sull’uso folgorante del patois c’è chi lo ha definito uno stile “orgiastico” e “masturbatorio.” Le offese e le mortificazioni non sono state soltanto di tipo professionale: l’adolescenza in Giamaica è stata caratterizzata da continui episodi di bullismo per via della sua omosessualità, ma lui è riuscito a incanalare la rabbia all’interno delle creazioni artistiche senza cedere alla tentazione della rivalsa.
E’ un uomo robusto sia nel fisico che nelle opinioni, che ama mescolare il lowbrow e l’highbrow, come testimoniano Leopardo Nero, Lupo Rosso e Strega della luna, Re Ragno, i primi due volumi della trilogia sulla quale sta lavorando. Figlio di due poliziotti, si è trasferito negli Stati Uniti dopo la laurea, ma appena può torna in Giamaica, sconvolta dall’uragano Melissa proprio nel giorno della nostra conversazione. “Nelle ultime ore non ho fatto altro che vedere notiziari”, mi racconta scuotendo la testa. “La zona occidentale non ha subito grandi danni, ma il resto dell’isola è in ginocchio. Jake’s, dove si tiene il festival letterario Calabash è stato praticamente cancellato dalla mappa". Che impressione ha avuto riguardo agli interventi da parte del governo? Dall’impressione che ne ho ricavato non si poteva fare molto di più, sull’isola si è abbattuto uno degli uragani più potenti di tutti i tempi. Ho appena ascoltato una dichiarazione di Donald Trump, il quale dice che offrirà l’aiuto americano. Questo è certamente un bene, e credo che sia particolarmente sensibile a questa tragedia perché ha dei possedimenti in Giamaica.
Domani si svolgeranno a New York delle elezioni storiche, e c’è la concreta possibilità che venga eletto per la prima volta un sindaco dichiaratamente socialista. Qual è la sua opinione su Zohran Mamdani? "Decisamente positiva. L’ho appoggiato alle primarie, l’ho votato e continua ad avere il mio appoggio. Ritiene che abbia sufficiente esperienza per governare una città come New York? E’ una cosa che sento ripetere e alla quale rispondo: il casino nel quale ci troviamo adesso, sia a livello cittadino che nazionale, è stato causato dalle persone di esperienze alle quali ci siamo affidati. Siamo circondati da uomini e donne di esperienza, e guarda cosa hanno combinato: forse sono proprio loro il problema. Aggiungo che preferisco l’integrità all’esperienza. Il programma di Mamdani è estremamente ambizioso e, almeno per gli Stati Uniti, rivoluzionario.
La politica ci ha insegnato che si finisce per fare sempre molti compromessi: anche se solo riuscisse a realizzare metà di quanto ha in mente di fare, sarebbe un grande successo, e darebbe un segnale di svolta, che specie in questo momento è fondamentale".
Qual è la sua opinione su Andrew Cuomo? "Evito considerazioni moralistiche rispetto alle accuse di molestie sessuali, anche perché su quella vicenda ci sono molte cose dubbie. Mi limito a dire che mi sembra il tipico rappresentante di quelle persone di esperienza che ci hanno portato a questo disastro. Non possiamo dimenticare i ruoli che ha già rivestito, in particolare quello di governatore: mi sembra un veterano, e non nel senso più nobile del termine". Ritiene che un’eventuale vittoria di Mamdani rappresenti un’anomalia o un precedente che potrà essere replicato altrove in America? "E’ difficile dirlo. Sebbene New York, per la sua grandezza e importanza rappresenti un caso a parte, non si tratta di un’assoluta novità, Portland ha un sindaco socialista. Io giudico l’esistenza stessa di un candidato come Mamdani come una reazione a quello che è oggi il nostro paese, e un modo di uscire dalla situazione in cui ci hanno portato gli odierni repubblicani. Per quanto mi riguarda, sono tra coloro che pensano che New York non sia un’eccezione rispetto al resto dell’America, ma la realizzazione, già avvenuta, di quello che tutto il paese può diventare".
A quindici anni di distanza dalle elezioni di Barack Obama, che valutazione ha della sua presidenza? Si è trattato di un fondamentale momento storico o di una opportunità mancata? "Credo che sia stata entrambe le cose. Non possiamo sottovalutare la portata epocale di quello che ha significato un uomo di colore eletto per due mandati consecutivi, ma neanche molti risultati al di sotto delle aspettative. Tuttavia il mio giudizio rimane positivo: per usare un paragone jazzistico ci aspettavamo di trovarci di fronte Miles Davis e invece abbiamo avuto Wynton Marsalis. Non bisogna sottovalutare un dato che porta con sé sia elementi positivi che negativi: Obama correva in realtà per la presidenza sin da quando aveva 19 anni.
Molti ritengono che il Partito democratico stia vivendo una crisi irreversibile. Dopo otto anni di Reagan e quattro di Bush Sr. il partito era in condizioni ancora peggiori: sembrava che non potesse mai più esserci un presidente democratico, e invece arrivò a Clinton per due mandati consecutivi. Sebbene l’Amministrazione Trump sia la più estremista che io ricordi, questo paese è caratterizzato da una costante volontà di riequilibrio e reazione. Dopo Bush Jr è arrivato Obama e dopo di lui Trump. Ed è importante sottolineare come l’America crei e distrugga eroi nel giro di breve tempo".
Con poche eccezioni la sinistra è una minoranza quasi ovunque nel mondo: qual è la sua riflessione a riguardo? "Il primo motivo è la vittoria del liberalismo dopo la sconfitta dell’ideologia marxista: quanto stiamo vivendo ha le radici in quel trionfo. Poi c’è il dato dell’elitarismo: la sinistra ha abbandonato le classi più umili, alle quali oggi la destra parla con grande efficacia. Ho avuto una chiara visione che Trump sarebbe diventato presidente quando in un comizio del 2016 disse: “Siete stati rovinati dagli accordi Nafta”. Il pubblico rispose con un’ovazione, perché nelle sue parole c’era qualcosa di vero. Si ha la sensazione tristissima che la sinistra non capisca questa gente, mentre Trump riesca a dialogare con le loro esigenze e i sentimenti più intimi. Tornando alle elezioni a New York, è significativo che l’establishment democratico non sappia come gestire Mamdani: ne è spiazzato e messo in imbarazzo. E’ un atteggiamento conservatore, mentre lui ha – come Trump – il talento di entrare in sintonia con le esigenze della gente oltre che il senso dello spettacolo: in occasione del recente funerale di poliziotto musulmano, Mamdani non si è seduto in prima fila come tutte le istituzioni ma per terra nel fondo. Si è trattato di qualcosa di genuino o di calcolato? Non ho una risposta precisa, ma certamente ha funzionato".
E’ cambiato il razzismo con questa amministrazione? "E’ peggiorato terribilmente ed è molto più alla luce del giorno: i razzisti oggi non si vergognano di essere tali e non lo nascondono, anche perché le istituzioni sono molto tolleranti a riguardo. L’omicidio di Charlie Kirk è gravissimo, inaccettabile e odioso, ma non posso dimenticare che prima di essere ucciso ha dichiarato pubblicamente di essere nervoso ogni volta che scopriva che il pilota dell’aereo sul quale si stava imbarcando era di colore. Ci stiamo anche assuefacendo alle fake news, e facciamo fatica a riconoscere le tesi portate avanti in cattiva fede. Un esempio per tutti: si cita spesso l’altissima percentuale di gente di colore in galera, ma anche non volendo soffermarsi sulle relative cause sociali, quanti sanno che più del 50 per cento delle volte queste persone vengono imprigionate con accuse che in seguito si rivelano false o destituite di prova?" Ritiene che il razzismo sia qualcosa di intrinseco nell’animo umano? "Lo è il fanatismo, così come il pregiudizio e l’intolleranza. Ma il razzismo è una scelta. C’è chi lo ha definito come una “fantasia di superiorità”. A volte queste definizioni suggestive finiscono per anestetizzare il problema invece di aiutare a risolverlo. Io dubito ad esempio che una persona bianca che vive grazie ai buoni pasto possa credere di essere superiore. Può sentirsi semmai abbandonato e magari da lì nasce una rabbiosa forma di odio e disprezzo per qualcuno con un altro colore di pelle che ha ottenuto più successo. Ovviamente non mi riferisco soltanto alla gente di colore: non mi sfugge il rigurgito grave e pericoloso dell’antisemitismo. “Una battaglia dopo l’altra”, di Paul Thomas Anderson, racconta un’America divisa in due blocchi contrapposti: suprematisti bianchi da un lato, rivoluzionari dall’altro. Sul piano cinematografico, non esito a definirlo un capolavoro che rimarrà nella storia del cinema: non c’è un elemento in tutto il film che non sia di eccellenza a cominciare dalle interpretazioni stellari, ed è anche molto divertente. Ma immagino che lei voglia parlare dei temi politici: è un’opera che non si può definire profetica perché stiamo già vivendo questa situazione, e ne ho avuto la chiara consapevolezza quando è apparso il personaggio di Benicio Del Toro. Ho pensato agli immigrati fotografati mentre erano rispediti in catene in centri di ricerca raccolta non troppo diversi dai campi di concentramento. Tra i tanti pregi, il film racconta il mondo underground di questo paese, che rischia di incancrenirsi ed esplodere".
Lei è un grande estimatore dei fumetti: qual è la più grande lezione che ha appreso da questo tipo di espressione artistica? "La prima cosa è che non esiste una cultura alta e una bassa, ma solo la cultura. E lo stesso vale per l’arte. Poi ho imparato grazie ai fumetti che essere un “diverso” può essere anche una buona cosa, e che prima o poi ognuno può trovare la propria tribù. Penso per esempio agli X-Men, che sono temuti, discriminati e odiati: è qualcosa che ho provato sulla mia pelle, e le confido che quando ho incontrato il creatore Chris Claremont mi sono emozionato, provando per lui un senso di gratitudine. Molti scrittori hanno reagito con fastidio, sarcasmo o peggio, quando Bob Dylan ha vinto il Nobel per la Letteratura.
So bene che il Nobel ha ignorato assurdamente molti grandissimi scrittori, ma quando ho sentito il nome di Bob Dylan ho fatti i salti di gioia, tanto più che il premio era assegnato da un’istituzione conservatrice come l’Accademia svedese. A cominciare da All along the Watchtower i versi di Dylan sono grande poesia e grande letteratura. A questo proposito vorrei aggiungere un dato culturale, sperando di non essere frainteso: soprattutto gli scrittori di colore possono capire fino in fondo che esperienza rivoluzionaria e catartica possano essere versi che sono cantati o perfino danzati".
Quando ha deciso di diventare uno scrittore? "A otto anni, dopo aver letto Robin Hood e Little House in the big woods. Avevo già cominciato a leggere da qualche anno, ma di fronte a quei libri ho capito che volevo creare qualcosa di mio. Una sensazione che è diventata lampante quando ho iniziato a lavorare in pubblicità. All’epoca ovviamente non potevo immaginare che sarebbe diventata la mia carriera e io stesso ne ho avuto contezza soltanto durante il tour promozionale del mio secondo libro". E’ vero che il posto preferito nel quale legge è la linea G della metropolitana? "Diciamo che è uno dei posti preferiti, e la qualità del libro si può misurare con il numero delle fermate che perdo".
Quando scrive segue una routine? "Leggo poesia o saggistica fino alle 11, poi comincio a scrivere e non stacco fino alle sei del pomeriggio".
Quando è stato insignito del Booker Price, lei ha citato tra le sue influenze Bob Marley e Peter Tosh. "Si deve a loro e all’esplosione del reggae in tutto il mondo se il nostro linguaggio non è stato più utilizzato soltanto in maniera comica o provinciale. Prima era in uso un inglese standard, ed è grazie a loro se è cambiato tutto. L’impatto di Marley e Tosh prescinde dalla musica e ha aperto la porta al racconto, con la nostra lingua colloquiale, di temi quali la schiavitù e il colonialismo".
Chiudiamo la nostra conversazione ritornando a parlare della Giamaica: lei ha dichiarato “su un aereo o dentro una bara, comunque me ne devo andare via”. Lo pensa ancora? "No, al punto che oggi ci passo dei lunghissimi periodi, anche se in gioventù gli episodi di omofobia mi hanno ferito profondamente. La battuta che ha ricordato ha che fare con qualcosa di profondamente intimo, non con il luogo in sé. E’ una sensazione che ho riconosciuto in molti miei allievi, quando mi hanno confidato forti depressioni e persino istinti suicidi: con loro cerco di riflettere se quello che dicono ha a che fare con la fine della vita o con la fine della loro personalità, del loro io. Nel momento in cui riescono a metterlo a fuoco avviene un passaggio di maturità, e questo è stato vero anche per me".