Foto Epa, via Ansa
medio oriente
L'insofferenza verso Hamas oggi è più forte nel mondo arabo che in Europa
Nessun politico in Italia o in Europa si rifiuta di recitare la rituale frase di condanna di Hamas. Ma la timidezza che c’è stata nel condannare le piazze che cantavano “dal fiume fino al mare” o che celebravano il 7 ottobre probabilmente oggi non si vedrebbe più nella maggior parte del popolo palestinese
"Non è la guerra di Israele, è la nostra guerra”. Questa è stata la frase che più mi ha colpito nella settimana che ho trascorso in medio oriente con colleghi parlamentari di altre nazioni europee, tra incontri con rappresentati governativi, diplomatici, politici e degli apparati di sicurezza. Ce l’ha detta una delle figure chiave del governo degli Emirati Arabi Uniti, in riferimento alla guerra contro Hamas e contro le organizzazioni radicali che teorizzano e praticano l’estremismo islamico, dalla Jihad ai Fratelli musulmani.
“Tra un ragazzo palestinese e uno israeliano, man mano che passa il tempo, c’è sempre meno differenza: a nessuno dei due interessa l’odio e la guerra, ma – con la stessa marca di telefonino in mano – sognano di costruirsi il futuro, e ne hanno diritto entrambi”. Questa invece ce l’ha detta un politico palestinese, che da ragazzo ha trascorse cinque anni nelle carceri israeliane per aver partecipato all’Intifada. “Ma in quegli anni – continua – non ho coltivato l’odio. Ho imparato l’ebraico, e mi sono sforzato di vedere la situazione dagli occhi del nemico. Perché solo così si può arrivare alla pace”.
Sarebbe ingenuo, o persino stupido, pensare che queste due posizioni rappresentino, rispettivamente, la totalità del mondo arabo e del popolo palestinese. Persistono tante ambiguità negli stati della regione (in primis il Qatar) ed è opinione comune che almeno in Cisgiordania il consenso di Hamas non si sia certamente azzerato. Tuttavia ci sono alcuni fatti che anche il più pessimista non può ignorare. Il primo riguarda il ruolo di potenze regionali come la Turchia, il cui capo dell’intelligence è stato una figura-chiave nel convincere Hamas a firmare il cessate il fuoco, e che ha avuto un ruolo cruciale nel cambio di regime in Siria. Paese che, seppur tra mille cautele, sta facendo ciò che in ottant’anni non aveva mai fatto: parlare di pace con Israele.
Il secondo riguarda il popolo palestinese che, avendo pienamente realizzato le conseguenze che il massacro del 7 ottobre ha avuto sulla sua pelle, moltiplica i segni di insofferenza verso Hamas. Sia tramite l’emergere di clan rivali a Gaza (che Hamas prende a fucilate in testa, come da sua abitudine) che attraverso l’intensificarsi dell’attivismo di una nuova generazione di politici palestinesi che si prepara a chiedere il consenso al popolo in nome della pacifica convivenza con Israele. Il terzo ovviamente riguarda il ruolo di Trump che sta usando abilmente l’interesse economico – quello più efficace dai tempi delle caverne – per convincere tutti gli attori di questo film a cambiare completamente sceneggiatura.
Ma proprio qui sta la sorpresa più grande del mio breve soggiorno nella regione. Ho avuto la netta sensazione che per quanto riguarda le esclusive responsabilità di Hamas in questa vicenda ci sia maggiore consapevolezza nel mondo arabo di quanta ce ne sia in Europa e in Italia. E, di conseguenza, la volontà di far cessare l’esperienza di Hamas, così come l’abbiamo conosciuta nei suoi 38 anni di storia, sia molto più forte lì di quanto lo sia da noi.
Intendiamoci: nessun politico in Italia o in Europa si rifiuta di recitare la rituale frase di condanna di Hamas. Ma la timidezza che c’è stata nel condannare le piazze che cantavano “dal fiume fino al mare” o che aprivano i cortei con gli striscioni che celebravano il 7 ottobre probabilmente oggi non si vedrebbe più né fra i tradizionali sponsor di Hamas, né nella maggior parte del popolo palestinese. E credo che questo pensiero meriti una riflessione approfondita da parte della politica e dell’informazione.
Il nostro viaggio è durato solo pochi giorni, e ci ha fatto vivere momenti che nessuno di noi potrà dimenticare mai: la visita al Memorial del Nova Festival e il racconto dei sopravvissuti, e quella al kibbutz Be’eri, a 4 km da Gaza, che fu attaccato da 450 terroristi quel maledetto 7 ottobre. Né potremo dimenticare un rumore che nessuno di noi aveva mai sentito prima: quello dei colpi di artiglieria che in quei momenti l’esercito israeliano stava sparando su Gaza come risposta all’uccisione, poche ore prima, di un soldato da parte di Hamas in violazione del cessate il fuoco.
Ma su questa tragica vicenda in occidente dobbiamo trovare il coraggio di abbandonare i rifugi sicuri dell’ideologia e degli slogan a uso domestico, e capire che i veri nemici della pace hanno un volto molto diverso da quello che, con tanta malafede e scientifica maestria comunicativa, si è voluto rappresentare all’opinione pubblica.
Luigi Marattin è deputato, segretario del Partito liberaldemocratico