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Il mantra di Milei: prima i conti in ordine. A colpi di schitarrate rock è il campione delle generazioni future
Cosa significa predicare la ritirata dello stato dalla vita dei cittadini, e cosa significa attuarla. Alla soglia di elezioni decisive per Milei: liquidato come un populista, ha stupito tutti per il rigore dei tagli e i loro effetti
Il liberalismo è una strana teoria politica. Rifiuta di farsi trasformare in un programma. La sua ragion d’essere è prescrivere al politico ciò che non dovrebbe fare. I diversi tentativi di darle un’“agenda”, se sono minimamente seri, si trasformano in una lista di cose dalle quali lo stato dovrebbe astenersi. Vale persino per l’idea che le norme debbano essere generali, astratte, uniformemente applicabili. E’ un’esortazione a limitare, per quanto umanamente possibile, la distribuzione di privilegi.
Le regole della politica democratica sono altre e la creazione di privilegi è la controparte del consenso. Non c’è gruppo sociale, dagli operai siderurgici a una qualsiasi delle lettere che compongono l’acronimo LGBTQIA+, che sia felice di essere trattato come gli altri, al punto che la legge lo consideri come la somma di tanti singoli individui.
Il composto instabile che chiamiamo “democrazia liberale” è un sistema che non necessariamente avvicina il momento del problema e quello della decisione. Con procedure che appaiono inevitabilmente barocche quando se ne discute all’ora dell’aperitivo, essa è il distillato storico di un caposaldo della saggezza impopolare: non è detto che decidere immediatamente su un problema significhi decidere bene. E non è neppure detto che tutti i problemi che l’emotività segnala come tali debbano essere oggetto di una scelta collettiva. Scriverlo sulle pagine di un giornale è relativamente facile, già spiegarlo in un talk-show è più difficile. Ma come, incombe una tragedia, e tu proponi di non fare nulla? Partire di qui per costruire una carriera politica è ancora più complicato.
Ogni tanto, succede. Javier Milei è il caso preclaro dei nostri tempi. Il presidente argentino ha messo in atto un aggiustamento di finanza pubblica inimmaginabile in altri paesi e in primis nel suo, se solo al governo ci fosse stato un altro. Ha tagliato la spesa pubblica in termini nominali di un terzo, portando il bilancio più sbrindellato del mondo in pareggio e poi a un moderato avanzo. In un mondo nel quale tutti desiderano “politiche industriali di grande respiro” e dunque poteri pubblici attivamente impegnati nel dire dove debbono stare e cosa debbono fare i fattori produttivi, il mantra di Milei è: prima i conti in ordine. Questo libertario che fa campagna elettorale a colpi di schitarrate rock è l’unico vero campione delle generazioni future: vuole lasciare loro un’Argentina in cui fare le proprie scelte, senza essere condizionati dagli impegni presi dai loro genitori e dai loro nonni.
L’esperimento di Milei è stato dapprima interpretato con preoccupazione dagli osservatori, che, scambiando il mezzo e il messaggio, l’hanno liquidato come un populista. Poi ha stupito per il rigore dei tagli e, soprattutto, per i loro effetti: a cominciare da una netta riduzione dell’inflazione, che pure resta altissima per gli standard non argentini (dal 210 al 30 per cento annui). La notizia ha scavalcato i confini nazionali: è difficile immaginare che, senza Milei, la Bolivia avrebbe avuto due candidati liberali al ballottaggio.
Ora il rocker di Buenos Aires è visto di nuovo con scetticismo, perché il consenso sembra vacillare, a causa, per inciso, più del venticello della calunnia e di un paio di scandali che del presunto rigetto dell’austerità. Domani il partito del presidente, La libertad avanza, potrebbe fallire nell’obiettivo che si è dato per le elezioni in cui si rinnova metà del Parlamento. Arrivare, cioè, a un terzo dei seggi. In Argentina il capo dello stato può mettere un veto alle leggi del Parlamento e Milei finora ha governato così. Nel modo più limpidamente liberale, impedendo che si facessero delle cose. Ma a sua volta la Camera può ribaltare il veto, con una maggioranza dei due terzi. Raggiungere un terzo degli eletti consoliderebbe la posizione di Milei e gli consentirebbe di proseguire per i prossimi due anni a colpi di no.
Come andrà a finire, lo sapremo solo con lo spoglio delle schede. L’altalena fra euforia e scoramento degli scorsi mesi suggerisce che a Buenos Aires l’arte del sondaggio è praticata con meno scrupolo di quelle del tango e della pizza.
I problemi di Milei in questi mesi non sono però soltanto suoi. Sono solo una versione particolarmente vistosa – come particolarmente vistoso, in tutto, è lui stesso – dei dilemmi del liberale in politica. Costui (più raramente, e con maggior successo, costei) è una figura peculiare. Il suo obiettivo è legare all’albero maestro un Ulisse ormai ammattito dal canto delle sirene. Persino il modo in cui i liberali parlano dei loro programmi ne evidenzia la natura anacronistica. Negli anni 80 della signora Thatcher e di Ronald Reagan si parlava di “roll back the government”, roll back sta per tornare indietro, ritornare allo stato precedente. Cent’anni prima, nell’epoca d’oro del liberalismo, William Gladstone brandiva la triade “Peace, Retrenchment and Reform”. Retrenchment significa potatura. Potatura delle spese pubbliche (in primis quelle militari).
Il liberale in politica può scegliere fra due ruoli in commedia: quello del predicatore o quello del riformatore.
Il primo fa testimonianza. Per sentirsi accerchiato, il liberale non deve far altro che ascoltare gli altri. A essere minoritario, nel mondo, è quello che resta una volta setacciato qualsiasi tipo di liberalismo: la convinzione che la sfera delle scelte collettive non vada continuamente rivista, ampliandola. Più che dalla Costituzione (in larga parte ancora quella del 1853, ispirata da Juan Bautista Alberdi, un Benjamin Constant sudamericano), l’Argentina pre Milei è stata governata dal motto di Evita Peron: “Donde hay una necesidad, nace un derecho”, dove c’è un bisogno nasce un diritto. Ma se la sinistra ha sempre pensato che dopo il liberalismo dovesse venire il socialismo, ora la destra indulge in vagheggiamenti post liberali. Anziché conservare la società che abbiamo (che è fortemente individualista), i post liberali si sono messi a sognare un comunitarismo da Mulino Bianco, in cui l’omogeneità culturale disinnesca ogni conflitto. Insomma: o lo stato deve fare di più per elargire diritti, o deve moltiplicare i suoi tentacoli per accertarsi che nessuno eluda i suoi doveri.
Il predicatore non dimentica mai la regola d’oro del liberalismo: le idee liberali non si possono imporre in punta di baionetta. Si può, nel migliore dei casi, persuadere le persone che riconoscere agli altri un po’ più di libertà significa, ad esempio, avere più innovazione e crescita economica e, dunque, stare tutti un po’ meglio. Il politico predicatore si armava un tempo del suo megafono, ora del suo account Twitter/X, e pazientemente ripete i suoi sermoni. E’ una tradizione antica e nobile. Luigi Einaudi per primo pensava di scrivere “prediche inutili”. In Inghilterra, due uomini d’impresa, Richard Cobden e John Bright, sacrificarono tempo e denaro alla vita parlamentare per spiegare ai colleghi la convenienza del libero scambio e i disastri del protezionismo cerealicolo. Negli annali della storia parlamentare, la figura del liberale solitario, che si alza in piedi in un’aula semideserta e spiega ai colleghi che la legge della domanda e dell’offerta non può essere abolita a maggioranza, è un comprimario ricorrente.
Qualcuno, qualche volta, arriva alle soglie del successo. E’ accaduto a Ron Paul, medico eletto più volte a rappresentare il ventiduesimo distretto del Texas, nel 2008 e nel 2012. Mentre infuriava la crisi finanziaria, George W. Bush salvava le banche con capitale pubblico e Alan Greenspan chiedeva perdono per il presunto liberismo, Paul si opponeva ai bail-out e cercava di proteggere il principio della separazione fra stato ed economia. Segaligno, Paul ricorda vagamente Mister Magoo ed è incapace della più modesta acrobazia oratoria. Proprio per questo, mentre splendeva la stella di Obama, incantò una generazione di attivisti conservatori, senza mai vincere le primarie ma mietendo consensi fra i giovanissimi.
Si sarebbe detto che fosse lui il modello di Milei, quando “el peluca”, dopo aver terremotato la televisione argentina, ha pensato che la politica attiva fosse una forma efficace di proselitismo. Paul è un attento lettore della scuola austriaca, ha frequentato il fondatore dell’anarcocapitalismo Murray Rothbard (in omaggio al quale Milei ha battezzato uno dei suoi mastini inglesi, vale a dire la cosa che gli è più cara al mondo), per una vita si è ispirato all’insegnamento retorico-metodologico di Ludwig von Mises: non abdicare mai all’uso della logica e anzi avvalersene per mostrare i cortocircuiti delle politiche pubbliche. Ma Paul, all’inizio degli anni Duemila, era già un gentiluomo del secolo passato e conquistava i ragazzi proprio per questo: la distanza umana agevolava la prossimità ideologica.
Milei è una serie Netflix della politica, il suo stile è perfettamente contemporaneo, persino le sue fragilità (i quindici Natali trascorsi in solitudine col cane Conan) ne fanno il perfetto traduttore delle idee liberali per la Gen Z.
I predicatori di solito pestano su tutti i tasti dell’emotività. Come il reverendo Cleophus James, il predicatore liberale ripete che è “troppo tardi” ma a differenza di James Brown non riesce a innescare il coro dei fedeli. La sua è una posizione scomoda. Quando c’è un terremoto, il liberale non si commuove meno degli altri ma gli è impossibile non preoccuparsi per come verranno spesi i fondi della ricostruzione. Innanzi al disagio sociale e alla povertà, il suo cuore non batte meno veloce di quello del socialista, ma sa che un bilancio in deficit alla lunga mina il benessere delle persone.
Per questo è raro che il predicatore liberale venga sloggiato dal suo pulpito e portato in trionfo verso lo scranno del capo del governo. A Milei è successo. Come sempre, la vittoria elettorale del buon senso economico ha bisogno di un complice: l’inflazione. Quando quest’ultima ha eroso stipendi e standard di vita, le persone diventano disponibili a trattamenti ai quali altrimenti non si sarebbero mai sottoposti.
Di solito, a somministrarli sono i riformatori. Questi ultimi ogni tanto si avvantaggiano della semina del predicatore, come Ronald Reagan con Barry Goldwater o Margaret Thatcher con Enoch Powell, ma sono fatti di un’altra pasta. Meno persi nei libri, hanno i piedi ben piantati per terra. La faccia dura, come Maggie, o la retorica bonaria, come Ronnie, sono strumentali a una strategia che si snoda per una serie di compromessi possibili.
Antonio Martino ricordava che Milton Friedman, appreso che era diventato ministro, l’aveva esortato a fare compromessi sui dettagli e non sui princìpi. La differenza fra gli uni e gli altri non è necessariamente chiara, in quel fiume in piena che è la vita politica. Così, Reagan, che da governatore della California e poi da candidato presidente aveva meravigliosamente spiegato i problemi del deficit di bilancio, finì per tagliare lui per primo le tasse aumentando il deficit. La Thatcher su alcune cose era meno incline a cedere e perse il posto dopo aver difeso fino all’ultimo un principio giusto: la poll tax, l’equivalente moderno del testatico medievale. Non ci sia un inglese che non sia anche un contribuente. Ma su altre cose sperimentò la sua buona dose di dubbi: per esempio sul grado di indipendenza della banca centrale. E parliamo della donna che rese di uso comune la parola “monetarismo”.
Non è facile dosare i trade off della politica, scegliere a cosa rinunciare oggi in vista di un obiettivo (ma quale?) domani. Milei lo ha sperimentato in questi mesi. Fra le sue promesse elettorali, c’era la versione argentina dell’“End the Fed” di Ron Paul: chiudiamo la banca centrale. Al governo, non ha né dollarizzato (l’Ecuador lo fece, ma a un passo dal precipizio) né lasciato fluttuare il cambio peso-dollaro. Né Hayek né Friedman. La moneta si è rafforzata, grazie alle sue scelte di bilancio. Poi ha voluto difendere artificialmente quel valore, assumendo impegni che diventano altrettanti obiettivi messi nel mirino dagli speculatori. L’amico Trump con munificenza prova a sterilizzare le paure dei mercati. Si capisce che le ironie sul bail-out del libertario si moltiplichino.
C’è però qualcosa di più delle difficoltà individuali. Come si fa a ricostruire un ordine liberale in una società dove lo statalismo è ubiquo? Da dove comincia il “retrenchment”, quali sono i rami che si potano per primi? Come si restaura la libertà di mercato dove se ne è persa traccia?
Il predicatore ha il lusso di ragionare sui tempi lunghi della persuasione e della parola, il riformatore deve agire. I pochi che ce l’hanno fatta hanno avuto ognuno uno stile diverso. Ma da anni di riforme non se ne fanno più, proprio perché sono così complicate che, se non hai una volontà di ferro, ti passa la voglia di provarci. Milei ha scelto una via coraggiosa, ancor più in America Latina: non investire capitale politico in presunte riforme strutturali, che poi possono essere dirottate dai lobbisti, ma ridurre il bilancio pubblico per aumentare gli spazi di libertà. Anche un liberale così rigoroso forse ha fatto un po’ di confusione tra princìpi e dettagli. Ma se fallisse, tutte le prediche sarebbero desolatamente inutili, per una generazione o giù di lì.