Da Tel Aviv
Sul voto per la Cisgiordania vanno in scena i regolamenti di conti interni di Israele
Il voto sull'applicazione della "sovranità israeliana su Giudea e Samaria", su cui Trump ha messo il veto mostra tutte le divisioni interne alla politica israeliana. Con una consapevolezza: presto si vota
Tel Aviv. L’apertura della plenaria della Knesset questa settimana ha ufficialmente decretato che, ora che gli otto fronti della guerra combattuta negli ultimi due anni sono fermi, gli israeliani possono dedicarsi al nono fronte, quello interno: il nome con cui dovrà essere ricordata negli annali questa guerra (cambiato da “Spade di ferro” a “Guerra della rinascita”), il dibattito sulla commissione di inchiesta (se di nomina governativa, dei giudici, o paritetica) e l’annosa questione della legislazione sull’ampliamento dell’arruolamento dei Haredim sono solo alcune delle questioni in discussione, mentre in sostanza si è già avviata una lunga campagna elettorale che replica la divisione interna che c’era prima del 7 ottobre 2023. La data naturale delle elezioni è il 27 ottobre 2026, ma la tenuta del governo è fragile. Una dimostrazione lampante è stata offerta in mondovisione dal capo dell’opposizione Yair Lapid mercoledì, quando la Knesset ha approvato in prima lettura il voto sull’“applicazione della sovranità israeliana su Giudea e Samaria” (ossia annessione delle aree C dei territori palestinesi in Cisgiordania), una politica su cui Donald Trump ha messo il veto (“ho dato la mia parola ai paesi arabi”) mentre cerca di cementare la tregua passando alla seconda fase, che riguarda il disarmo di Hamas e da cui dipende il resto del suo “piano per la pace”.
Si è trattato di un voto preliminare con nessuna ripercussione concreta, ma significativo per fotografare la mappa politica schizofrenica con cui parte la corsa elettorale. Il voto su un provvedimento caro alla destra israeliana, mai implementato in anni di governi Netanyahu, è avvenuto su due proposte: una presentata dal falco dell’opposizione Avigdor Lieberman, e l’altra da Avi Maoz, parlamentare di estrema destra fuoriuscito dalla coalizione nei mesi scorsi. Il consenso raccolto nel corso di una plenaria semivuota ha creato una sorprendente unità di intenti tra partiti di opposizione (Lapid, Gantz, Lieberman) ed elementi della coalizione (Smotrich, Ben Gvir e una fazione dei Haredim). Il Likud aveva imposto l’astensione, ma la disciplina di partito è stata violata dal voto determinante di Yuli Edelstein. Ognuno dei franchi tiratori della coalizione aveva le sue ragioni: Edelstein come vendetta personale per essere stato rimosso a luglio dalla guida della Commissione sicurezza perché in polemica con il disegno di legge sull’arruolamento dei Haredim, che per lui non è sufficientemente drastico; i Haredim in protesta per lo stesso disegno di legge, che invece per loro è troppo duro; Ben Gvir e Smotrich sono stati coerenti con la loro posizione storica (il primo a spingere per l’annessione alla Knesset fu proprio, una decade fa, il partito di Smotrich quando era guidato da Naftali Bennett, prima della sua metamorfosi attuale). Ma ora questa posizione è ancora più determinante, nel momento in cui il premier Netanyahu ha accettato il piano di Trump, rivelando le differenze tra la destra pragmatica incarnata dall’elettorato del Likud e quella prettamente ideologica che crede davvero che Israele possa essere una super Sparta. La diatriba è stata sintetizzata dal ministro delle Finanze Smotrich giovedì: “Se l’Arabia saudita ci propone la normalizzazione in cambio di uno stato palestinese, no grazie, amici. Continuate a cavalcare cammelli nel deserto, e noi continueremo a sviluppare l’economia e le grandi cose che sappiamo fare”.
Mentre alla Knesset vanno in scena i regolamenti di conti interni, gli Stati Uniti stanno istituendo il Centro di Coordinamento civile-militare (Cmcc) di stanza a Kiriat Gat nel sud d’Israele (la stessa città dove Intel sta completando uno dei centri di ricerca e sviluppo più importanti dell’azienda). L’Amministrazione gioca a carte coperte perché i nodi sono innumerevoli, ma già è stato possibile avvistare, oltre a duecento truppe statunitensi, anche soldati inglesi, francesi, spagnoli, australiani, greci e ciprioti, oltre a funzionari giordani ed emiratini. Il tutto sotto la supervisione del diplomatico di carriera Steven Fagin, nominato da Joe Biden ambasciatore nello Yemen e ora catapultato da Trump in Israele per questa missione. Su questo punto, due parametri potrebbero aiutarci nel corso degli eventi (ossia se non sarà di nuovo l’Idf a entrare a Gaza City per disarmare Hamas): se oltre a quella civile ed economica, ci sarà anche una presenza militare turca a Gaza, a cui gli israeliani si oppongono, e in che modalità Trump riuscirà a coinvolgere i sauditi, dopo l’incontro che terrà alla Casa Bianca con l’erede al trono Mohammad bin Salman il 18 novembre. La grande vittoria del voto sull’annessione è stata quella del capo dell’opposizione Yair Lapid – che nei sondaggi perde quasi due terzi dei suoi seggi attuali: la sovranità in Cisgiordania non ci sarà, ma ha potuto dimostrare che anche Netanyahu sta perdendo la sovranità sulla sua coalizione.