Zelensky riparte dalle basi

Putin vuole riportare il rapporto con Trump a prima dell'Alaska

Micol Flammini

Favori e divisioni fra il capo del Cremlino e il presidente degli Stati Uniti, in attesa del vertice di Budapest

Per raggiungere Budapest, il capo del Cremlino, Vladimir Putin, dovrebbe affrontare un viaggio molto complicato. L’Ungheria non ha sbocchi sul mare, è al centro dell’Europa, confina con paesi che molto difficilmente darebbero all’Ilyushin Il-96-300PU (PU sta per punkt upravlenija, punto di comando), l’aereo con cui viaggia il capo del Cremlino, il permesso di sorvolare i loro cieli. L’Ungheria confina con l’Ucraina e sarebbe folle pensare che Putin possa tentare un sorvolo del paese che ha invaso. Raggiungere l’Europa è un’impresa e forse al capo del Cremlino resterebbe una sola opzione per recarsi al vertice concordato con Donald Trump, durante la telefonata di giovedì sera. L’unico punto di ingresso accessibile a un aereo del governo russo potrebbe essere la Serbia, che confina con l’Ungheria, ma che comunque è tortuoso raggiungere. 

 

Un volo che normalmente dovrebbe durare due ore e mezza, impiegherà un tempo spropositato ma, dopotutto, è stato proprio Putin a sovvertire le regole dello spazio aereo dei paesi europei con la sua guerra contro l’Ucraina

 

Dopo aver ottenuto un accordo  in medio oriente, il presidente americano Donald Trump vuole consolidare la sua nomea di pacificatore arrivando a un accordo che fermi anche la guerra della Russia contro l’Ucraina. Per farlo ha bisogno di mettere al tavolo dei negoziati il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, che ieri è stato a Washington per pranzare con lui, e il capo del Cremlino, Vladimir Putin, con il quale potrebbe incontrarsi presto a Budapest. Dopo aver permesso che Putin atterrasse in Alaska il 15 agosto, negli Stati Uniti, camminasse sui tappeti rossi stesi dai soldati americani, Trump potrebbe regalare al capo del Cremlino la possibilità di valicare un’altra linea rossa rimettendo piede in un paese dell’Unione europea. L’incontro fra Trump e Putin in Alaska, al di là delle immagini, non era andato affatto bene. Putin era dovuto andare via in anticipo perché Trump aveva cancellato la cena in cui i due avrebbero discusso di cooperazione futura. Fino al vertice di Ferragosto, Putin pensava di avere Trump in pugno: ha sempre ritenuto il capo della Casa Bianca manipolabile. Invece la sua retorica e la sua pedanteria nel riferire le sue ragioni storiche a giustificazione della guerra all’Ucraina, hanno infastidito Trump. Il presidente americano vuole dei risultati, il fallimento dell’Alaska è stato una macchia sul suo lavoro da pacificatore e anziché pensare di aver sbagliato qualcosa nell’approccio morbido con Putin, si è offeso con il capo del Cremlino. Putin lo ha capito e per due mesi, dal vertice di Ferragosto alla sua ultima telefonata con il presidente americano, in ogni discorso pubblico non ha perso occasione per lodare Trump. Lo ha adulato, ne ha celebrato le doti come leader e come mediatore, ha ripetuto che con lui questa guerra non ci sarebbe mai stata. Ogni evento pubblico si è trasformato in un atto di celebrazione del presidente americano. Putin ha cercato spesso di utilizzare i risultati mediorientali di Trump per proporsi come alleato – sia con la Repubblica islamica dell’Iran sia nella mediazione fra Israele e Hamas – ma la Casa Bianca ha sempre preferito lasciare Putin fuori da ogni accordo o mediazione. Così al capo del Cremlino non è rimasto che usare il medio oriente per unirsi al coro di chi ha proposto Trump per il premio Nobel per la Pace, ben sapendo che l’ostacolo per la futura vittoria del presidente americano potrebbe essere proprio la mancata soluzione della guerra in Ucraina. Nel parlare di Trump, Putin è parso spesso docile. Il motivo è semplice:  pensa di riottenere il favore del presidente americano e di poterlo  convincere a forzare l’Ucraina a cedere le regioni che l’esercito russo non ha conquistato. 

 

Il lavoro al Cremlino in realtà è di squadra. Il capo non ha attaccato il presidente americano neppure quando l’arrivo dei missili a lungo raggio Tomahawk in Ucraina pareva una decisione già presa. Ha lasciato che fossero i suoi scagnozzi ad attaccare gli Stati Uniti e a minacciare l’arrivo di una guerra più estesa. Putin è rimasto nel suo silenzio e, soltanto giovedì, si è preso la briga di lasciar trapelare dal comunicato finale della telefonata con Trump che la fornitura dei Tomahawk a Kyiv era stata discussa. Nel frattempo Kirill Dmitriev, il capo del Fondo russo per gli investimenti all’estero, ha continuato a lavorare da tessitore di sintonie fra Stati Uniti e Russia, proponendo, da ultimo, anche la costruzione di un tunnel lungo 100 chilometri per collegare i due paesi passando sotto lo Stretto di Bering. Il costo dell’opera sarebbe di 65 miliardi di dollari. La vera lezione che Putin ha imparato dall’Alaska è che per ottenere il favore di Trump bisogna offrirgli una vittoria in cambio, ed è proprio questo il punto di scontro fra i due: se vince l’uno non vince l’altro e non ci sono tunnel che potrebbero unire le due posizioni.  

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)