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l'analisi

Hamas impedisce la seconda fase dell'accordo. Prospettive contro lo stallo

Sharon Nizza

Il piano in 20 punti del presidente americano, che promette un “percorso verso l’autodeterminazione palestinese”, divide Israele e mette alla prova il fragile equilibrio tra i nuovi partner arabi. Il disarmo del gruppo e il ruolo di Qatar e Arabia Saudita restano i nodi più esplosivi di una pace ancora tutta da costruire

Tel Aviv. L’alba di un nuovo medio oriente prospettata da Trump prevede ancora innumerevoli insidie prima di levarsi sopra alleanze ancora clandestine. Nonostante le dichiarazioni pompose, diversi segnali sono indicativi delle incognite. Uno di questi è il fatto che la destra oltranzista nella coalizione Netanyahu, quella di Ben Gvir e Smotrich, ancora non abbia fatto cadere il governo, nonostante il premier abbia pubblicamente aderito al piano in 20 punti di Donald Trump, in cui si parla anche di “un percorso credibile verso l’autodeterminazione dello stato palestinese”. Si tratta di dichiarazioni inserite come precondizione per non chiudere la porta a un possibile ampliamento della cerchia degli Accordi di Abramo, ma che, seppur vaghissime, rappresentano una linea rossa assoluta per la fronda estremista. Poi c’è la questione di come si concluderà la prima fase – l’unica che attualmente è passata al voto governativo israeliano, nonostante l’opposizione dei ministri di cui sopra: l’accordo votato parla espressamente di restituzione di tutti gli ostaggi israeliani, vivi e morti. Israele ha già ottemperato alla sua parte, completando il primo ritiro sulla “linea gialla” (controllo del 53 per cento della Striscia), liberando tutti i prigionieri palestinesi concordati e aumentando il flusso di aiuti umanitari nella Striscia. Questo mentre Hamas ha invece annunciato mercoledì di aver “consegnato tutti i corpi che è in grado di trovare” (ne mancano ancora diciannove). Un’affermazione che contraddice le trattative febbrili sottobanco, per cui Hamas in realtà sa come arrivare, anche con l’aiuto stesso di Israele e degli egiziani che sono già all’opera dentro la Striscia, ad almeno altri dieci cadaveri. Al momento, l’unica ritorsione israeliana rispetto a questa violazione è il ritardo dell’apertura del valico di Rafah, in protesta con il fatto che uno dei cadaveri consegnati martedì non fosse  di un ostaggio.

Sembra quindi delinearsi una disponibilità israeliana, imposta da Trump, a concedere altro tempo per portare avanti la prima fase, nonché a discutere in parallelo la seconda, complicatissima: quella che si è formalmente avviata con il vertice di Sharm el Sheikh e che prevederebbe il disarmo di Hamas e la demilitarizzazione della Striscia di Gaza, insieme a un’ulteriore ritirata dell’esercito israeliano. I paesi presenti al summit egiziano sono i potenziali candidati – chi come finanziatore, chi con invio di contingenti – a essere parte della Forza internazionale di stabilizzazione, il meccanismo delineato nel piano di 20 punti che dovrebbe subentrare all’Idf nelle aree da cui questo si ritira gradualmente. Tuttavia, le immagini dei sanguinosi regolamenti di conti in corso a Gaza tra Hamas e i clan palestinesi accusati di collaborazionismo con Israele, non sono di certo un incentivo per quei paesi che dovrebbero entrare “boots on the ground”. Questo scoraggia in particolare quelle forze legate all’asse anti Fratellanza musulmana in medio oriente, come sauditi, emiratini, egiziani e giordani per cui l’organizzazione – di cui Hamas rappresenta la branca palestinese – è fuorilegge e preferirebbero evitare di avervi a che fare in un teatro che non riguarda i propri interessi nazionali primari. Non a caso, i grandi assenti dal vertice erano il saudita Mohammad bin Salman e l’emiratino Mohammad bin Zaid, infastiditi dal ruolo centrale dell’emiro qatarino al Thani, con il quale si contendono l’egemonia regionale da anni, nonché il ruolo di migliore alleato di Trump. Il quotidiano Israel Hayom riporta ieri da fonti saudite e americane che Riad “non intende impegnarsi significativamente a Gaza finché ci sarà anche un solo kalashnikov nelle mani di Hamas”.

Dopo aver più volte ripetuto tra Gerusalemme e Sharm el Sheikh che il cessate il fuoco reggerà, Trump ha cambiato linea nei giorni scorsi, a seguito del tergiversare di Hamas sulla restituzione dei corpi degli ostaggi, ma soprattutto sulla disponibilità a riconsegnare le armi, che da quando l’Idf ha iniziato la ritirata, sono ora impiegate contro palestinesi stessi: il presidente americano ha sostenuto pubblicamente che non esclude che Israele possa riprendere una fase bellica “non appena lo dirò io”, ha detto alla Cnn. “Si disarmeranno, o li disarmeremo noi. Capito?” (quando il “noi” significa soldati israeliani, non americani). Dichiarazioni che richiamano quanto affermato da Netanyahu venerdì, dopo l’approvazione del governo dell’avvio della prima fase: “Hamas verrà disarmato e Gaza sarà smilitarizzata: se questo obiettivo sarà raggiunto con la via facile, bene. Altrimenti lo sarà con la via dura”. Queste minacce sono da un lato il collante che attualmente previene il dissolversi della coalizione di governo, dall’altro hanno un effetto deterrente che è da capire se potrà avere un’implementazione pratica, trasformando i grandi, prematuri festeggiamenti per il cessate il fuoco, in una labile tregua. Si aggiungono anche sussurrate e vaghe promesse in Israele per cui violazioni dell’accordo da parte di Hamas potrebbero trovare risposta con altre mosse controverse, come l’annessione della Valle del Giordano.

Quello che manca del tutto nelle carte negoziali, sono le tempistiche e la misura di cosa sia da considerarsi una violazione. Sarà probabilmente Trump, ponendosi come arbitro supremo, a stabilirlo. Pare abbastanza evidente che i corpi degli ultimi ostaggi non saranno una linea rossa. Lo sarà il secondo obiettivo della guerra, il disarmo di Hamas, che ora sembra più lontano che mai? 

Molto peso ricade sull’insolito triumvirato che si era creato – Egitto, Turchia e Qatar – per costringere Hamas a liberarsi del suo asset più importante, gli ostaggi vivi. Insolito, osserva l’analista Avi Issacharov, perché gli ultimi due, sostenitori della Fratellanza musulmana, sono in pessimi rapporti con il primo, nonché con gli altri paesi del Golfo, e in primis l’Arabia saudita. In particolare Doha, che ospita ancora la leadership di Hamas, si è fatta garante di fronte a Trump che porterà Hamas ad adempiere al resto dei passaggi del suo piano ambizioso. Se non dovesse riuscirci, nella mentalità transazionale di Trump, potrebbe questo impattare sulla sua strettissima alleanza con l’emirato dove è stazionata la più grande base americana in medio oriente, al Udeid? Parlando alla Knesset delle nuove alleanze regionali che ambisce a saldare entro la fine del suo mandato, Trump ha detto che nell’area “ci sono persone a cui piace davvero Israele. E gli piace molto di più oggi rispetto a cinque settimane fa”, ossia la data dell’attacco israeliano a Doha. Si può immaginare che a Riad e ad Abu Dhabi non si siano stracciati le vesti per quel colpo di mano di Netanyahu e che un fallimento del loro rivale qatarino nelle attuali trattative, possa portare qualche credito in più per le loro istanze a Washington. E infatti, l’erede al trono saudita, Mohammad bin Salman, è in procinto di visitare la Casa Bianca a novembre (l’ultima visita risale alla precedente Amministrazione Trump, nel 2018), mentre i due paesi stanno negoziando un importante patto di difesa. Sarà fondamentale capire, per l’assetto delle dinamiche regionali, quali intese gli Stati Uniti di Trump intendono stipulare con i sauditi, e che vantaggio qualitativo avranno rispetto alle garanzie date al Qatar con il recente ordine esecutivo presidenziale in stile Nato.

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