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dalla nostra inviata

Con i guardiani di Israele. Il ritorno a Kfar Aza è la sconfitta del terrore di Hamas

Micol Flammini

I kibbutz massacrati da Hamas ricostruiscono dove la voglia di vivere si mescola con i resti del male. A Kfar Aza, Nira sa la storia di ogni maceria, di ogni morte, ma adesso è pronta a tornare a casa al confine con Gaza

Kfar Aza, dalla nostra inviata. Finalmente il rumore di un cantiere. Finalmente materiali da costruzione, viti. Kfar Aza si prepara a riabitare, ad accogliere. Finalmente operai: spostano mobili e stuccano muretti, fanno il loro lavoro come lo farebbero in un posto qualunque della terra. La ricostruzione procede strada per strada e nel kibbutz le strade vengono definite “quartieri”: il primo indizio che le unità di misura in queste comunità di Israele hanno una scala diversa. La strada diventa quartiere, il kibbutz diventa mondo, Gaza diventa il motore di ogni incubo. Lo spavento non è passato, Kfar Aza del 7 ottobre ricorda ogni istante. Conta i morti, le case distrutte, le ore di attesa, le vite non salvate. Ma il kibbutz, oltre a essere mondo, è anche casa e i suoi abitanti sono pronti a tornare a vivere a fianco all’incubo. Nira Shpak è stata deputata del partito di centrosinistra Yesh Atid, il cui leader è l’ex giornalista e  attuale capo dell’opposizione Yair Lapid, che alla Knesset, al fianco di Donald Trump lunedì scorso, ha tenuto un discorso potente, un manifesto su Israele, spiegando che il paese è il più forte del medio oriente perché è l’unica democrazia dell’area. Un concetto di base da cui costruire il potere duraturo di ogni nazione: la democrazia va avanti, si evolve, vince. Le dittature, i terroristi al governo, i governi terroristi soccombono. E’ matematica del potere. Lezione di vittoria.

 

I kibbutz del deserto del Negev, dei quali fa parte Kfar Aza, sono i baricentri della democrazia israeliana, che si è fondata fino a due anni fa anche sul concetto di due stati per due popoli. Se qualcuno avesse chiesto a Nira Shpak cosa ne pensasse di uno stato palestinese fino al 6 ottobre del 2023 non avrebbe avuto dubbi. Oggi i dubbi la torturano. Sono il rumore di fondo di ogni sua giornata, come il ronzio dei droni israeliani che continuano a volare sulla Striscia: “Quel giorno non c’erano droni e non c’erano nemmeno le telecamere di sicurezza. Sono stata una riservista, ho intenzione di guardare personalmente ogni giorno dentro la Striscia per segnalare all’esercito cosa non va, cosa non vede”. Shpak lo faceva già prima del 7 ottobre, si era accorta che c’era qualcosa di strano. Alla Knesset aveva protestato anche contro la decisione del governo di togliere al kibbutz le armi: “Ho detto ai deputati di non venire a chiedermi scusa quando sarebbe stato troppo tardi. E’ stato insensato toglierci l’arsenale”. Ogni kibbutz ha una squadra di difesa e un deposito di armi che servono per un primo intervento nel caso di infiltrazioni di terroristi. Il 7 ottobre quelle squadre sono state fondamentali per contenere l’attacco di Hamas. “Quando torneremo a vivere qui sapremo che tutta l’otef (la cintura di kibbutz e moshav attorno alla Striscia) dovrà fare la guardia. Non sono spaventata, io non vedo l’ora di tornare a vivere qui, ma capisco chi non può rivivere quel giorno all’infinito. Mia figlia, per esempio, non ha intenzione di tornare. Lo ritiene troppo pericoloso per i suoi bambini. Io torno e credo che con me tornerà circa il 60 per cento della popolazione di Kfar Aza”.

 

Nira Shpak ha una forma particolare di dolcezza molto ruvida, si è innamorata dei kibbutz del Negev durante il servizio militare, quando era stata mandata nel sud di Israele per il periodo di leva obbligatorio: essere qui, vivere qui, per lei è una vocazione. Non è una figlia del Negev, ma oggi ne è la guardiana e ha tutte le caratteristiche della sinistra israeliana che ha qui la sua base, la sua roccaforte e adesso i suoi tormenti. Nira e suo marito andavano a prendere i palestinesi, li portavano negli ospedali israeliani. Racconta uno dei momenti che più ha sentito con dolore durante la guerra: “L’esercito in un tunnel ha trovato i documenti di un ospedale israeliano, era una di quelle strutture in cui sia io sia mio marito avevamo accompagnato qualcuno più di una volta. Ho saputo così che quel qualcuno era un terrorista e mentre noi cercavano di salvargli la vita voleva soltanto la nostra morte. Quel terrorista, probabilmente, è salito in macchina con me, o con mio marito, o con altri dei kibbutz massacrati”. Alla domanda se lo rifarebbe, se si rimetterebbe in macchina qualcuno di Gaza per portarlo in ospedale e salvargli la vita, dopo aver visto i terroristi di Hamas seguiti dai civili della Striscia sfondare la barriera con Israele per massacrare una popolazione disarmata e addormentata non risponde: “Mai più”. Prende tempo, sorride, e pensosa sussurra: “Non ora”. E’ un peso doverlo dire. La sinistra israeliana, sostenitrice della convivenza, è stata massacrata da Hamas e l’obiettivo dei miliziani non era casuale: sapevano che non avrebbero ucciso i coloni che organizzano spedizioni per colpire i villaggi palestinesi in Cisgiordania né i ragazzi armati che vengono chiamati “giovani delle colline”, definizione bizzarramente romantica che conferisce a dei gruppi di violenti un’aura bucolica. Hamas sapeva che stava andando a colpire una certa popolazione di Israele e lo ha fatto perché non è interessato a nessuna convivenza, coabitazione, a nessun vicinato. 

Nira Shpak si aggira per la sua Kfar Aza indicando le case, elencando i nomi dei loro vecchi abitanti: chi dentro è stato ucciso o rapito, chi tornerà. Lei ai primi allarmi era andata a casa di sua figlia. Era uscita mentre il kibbutz si stava riempiendo di terroristi, ma Nira è dura, coraggiosa, forte, era pronta ad affrontare tutto e la sua decisione si è rivelata molto giusta: gli uomini di Hamas non fecero in tempo a raggiungere casa di sua figlia, ma entrarono nella sua. “La mia casa è in piedi, ma la butterò giù e la ricostruirò di nuovo. I terroristi sono entrati nella mia sala, nel mio bagno. Non ho intenzione di mettermi a pulire, voglio che tutto scompaia”. Per le strade-quartieri del kibbutz, fuori da molte case si vedono i vecchi mobili dei loro abitanti: in tanti hanno preso la decisione di Nira, non vogliono avere un oggetto che conservi neppure una particella di chi era venuto per massacrarli. Con Nira si cammina dai posti meno colpiti, fino ad arrivare alla strada-quartiere del male assoluto: la strada-quartiere dei giovani da cui sono stati rapiti anche i fratelli Berman, tornati a casa dopo due anni di prigionia lunedì scorso. Più il male è stato profondo, più si fa fatica a portarlo via. Se altre zone del kibbutz sono ormai dei piccoli cantieri quasi pronti a riaprire ai loro abitanti, questa parte è ancora sommersa da una violenza che è entrata sottoterra, che ha ribaltato ogni casa. Tra le macerie, le suppellettili ancora bruciate dal fuoco che i terroristi hanno appiccato alle case in cui si stavano nascondendo i civili, rimangono nascosti i resti di una vita: indumenti, libri, divani. Nira è rimasta chiusa con la sua famiglia per ventidue ore, coordinava la risposta del kibbutz dal gruppo su Whatsapp: “I bambini iniziavano a prendere i telefoni dei genitori e a scrivere ‘mamma è morta’, ‘hanno sparato a papà’. Oppure i terroristi prendevano i telefoni delle vittime e leggevano cosa ci scrivevamo in chat. Molti parlavano ebraico, abbiamo fatto fatica a capire quando erano davvero arrivati i nostri soldati”. Nira l’ha riconosciuto dalle armi, è stata una soldatessa, sa come spara un’arma degli israeliani. E proprio da soldatessa, una volta uscita da casa di sua figlia, ha scelto di non essere evacuata ma di andare dietro all’esercito. Serviva qualcuno che sapesse muoversi per il kibbutz, che identificasse i posti e le persone: “I terroristi erano ancora fra le nostre case”. 

 

La comprensione profonda di cosa è stato il 7 ottobre, Nira l’ha avuta quando è arrivata con l’esercito nella strada-quartiere dei giovani. “Ho riconosciuto i corpi dei miei vicini, tre erano stati decapitati”. Per cercare di ricomporre il corpo, hanno scavato e cercato per mesi. Davanti a una delle case, un ragazzo è seduto su una sedia pericolante. Ha gli occhi lucidi. E’ casa di suo fratello, Nirel Zini. Il ragazzo, Noam, ha la fronte contratta, sembra che la ruga del pianto gli si sia tatuata sul volto. Viene quasi ogni giorno. Si siede, fuma, aspetta il tramonto. Ha smesso di lavorare, vive per venire qui a capire la morte di suo fratello. Nira gli parla, chiede il permesso di entrare nella piccola casa in cui Nirel aveva vissuto con la sua compagna Niv. Erano a Kfar Aza quella mattina, uscirono dalla finestrella del mamad, il rifugio, quando i terroristi appiccarono l’incendio. E’ stato il metodo applicato a ogni kibbutz, la scelta fra due tipi di morte imposta a madri, padri, figli, nonni: o bruciare o essere ucciso una volta tentata la fuga. Nirel e Niv tentarono la fuga, la casa è ancora completamente bruciata. Vennero uccisi e a Nirel venne tagliata la testa. Decapitato, non si sa se prima o dopo la morte della sua compagna, davanti alla porta di casa. E’ stato sepolto senza la testa e suo fratello viene a sedersi pensando agli ultimi momenti di Nirel. Noam e Nira si mettono a parlare, dicono che attorno hanno scavato ovunque, credono che la testa sia a Gaza. Nirel è in una bara, la sua testa in ostaggio di Hamas. Inutile chiedersi le ragioni dei terroristi, la violenza a cui queste terre sono state sottoposte ha spiegazioni disumane e non è spiegandole che Kfar Aza può ripartire. La ricostruzione affonda nelle sabbie che in parte nascondono ancora i resti del massacro, ma Kfar Aza non intende diventare una terra di sangue, la gente qui aspetta di rientrare e per quanto riguarda la sicurezza non ammetterà nessuna sciatteria: gli abitanti sono stati i difensori solitari contro un progetto distruttore che mirava a tutto il paese, non possono essere abbandonati due volte. E’ un concetto di giustizia, ma anche pratico: se l’otef si spopola, per Israele viene meno uno dei suoi baluardi, resta scoperto, nudo, attaccabile. Dice Nira che tutto è stato fatto male, la recinzione che ormai gli israeliani pensavano fosse inscalfibile era in realtà la prima delle debolezze. Gli alberi che sono stati piantati al di là della rete si sono dimostrati una risorsa per Hamas, hanno aiutato i miliziani a nascondersi. Ogni strada-quartiere di Kfar Aza ha la vista su Gaza, se si guarda dritto in avanti si vede quel che rimane di Jabaliya e si vedono le luci degli accampamenti dei soldati che si sono ritirati. Il motore degli incubi esiste ancora, ma la risposta contro ciò che Gaza ormai rappresenta per Israele, Nira ce l’ha chiara: non è andarsene, non è scomparire, non è abbandonare il Negev. E’ rimanere, è riportare la vita a Kfar Aza. La maggior parte degli abitanti del kibbutz, in attesa di tornare, vive a Ruhama, dove ha riaperto anche il bar di Hagai, un camioncino che serve birra e che i terroristi incendiarono. Hagai è un riservista e il suo compito dopo il 7 ottobre era stato quello di entrare a Gaza e cercare tracce degli ostaggi: le tracce erano dovunque, chi era entrato nei kibbutz aveva portato via di tutto. Oggi Hagavi anima la vita di Ruhama, in attesa di tornare a Kfar Aza. Lo fa calibrando commemorazione e celebrazione. E’ complicato tenere in piedi un kibbutz che ha vissuto e rivive il ritorno della vita e il ricordo della morte ogni giorno. E’ tutto mescolato nella sabbia del Negev, la voglia di vivere con i resti del male.

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)