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Tel Aviv
L'attesa di un corpo rapito. L'ottimismo che resta per la famiglia di un ostaggio ucciso
Gli israeliani aspettano sapendo che il momento della sepoltura potrebbe non arrivare mai. La storia di Tal Haimi e della sua bara vuota attraverso le parole della moglie Eli: "L'ho chiamato più tardi, mi ha detto che andava tutto bene e che non poteva parlare”
Tel Aviv, dalla nostra inviata. Essere ottimista per la famiglia di un ostaggio morto che è ancora prigioniero di Hamas vuol dire aspettare il ritorno di un corpo a cui dare sepoltura. Essere realista, invece, vuol dire non dimenticare che il corpo potrebbe non tornare mai. La giornata di ieri è iniziata con la notizia che i terroristi non avrebbero restituito neanche una salma delle ventiquattro ancora tenute a Gaza, con la scusa che trovare i punti esatti in cui sono stati nascosti gli ostaggi morti è molto difficile tra le macerie della Striscia. La Croce Rossa aveva definito la ricerca dei corpi una “sfida enorme”. Non è semplice, Israele lo sa, conosce il territorio, ma sa anche che il gruppo sta usando i corpi per estendere il periodo prima dell’attuazione della seconda fase del piano di Donald Trump che dovrebbe portare a un’amministrazione nuova dentro la Striscia e al disarmo del gruppo. Le settantadue ore che il gruppo aveva a disposizione per liberare i quarantotto ostaggi, vivi e morti, che ha tenuto in prigionia per oltre settecentotrentasette giorni, sono scadute e il piano parla chiaro: se i termini non vengono rispettati, la guerra riparte. Hamas vuole estendere queste ore per potenziare la sua presenza nella Striscia, continuare la resa dei conti con i clan armati che gli sono ostili, portare avanti le punizioni contro coloro che accusa di avere collaborato con gli israeliani e mobilitare più miliziani possibili.
Crede che gli Stati Uniti e i paesi arabi che appoggiano il piano Trump non daranno davvero a Israele il sostegno per riprendere i bombardamenti sulla Striscia per riavere i corpi degli ostaggi. Lunedì Hamas ha restituito soltanto le salme di quattro ostaggi e non aveva intenzione di fare di più. Israele allora ha iniziato un lavoro di pressione intensa, ha fatto sapere che non avrebbe permesso l’apertura del valico di Rafah, che separa la Striscia dall’Egitto, e che avrebbe ridotto il numero di aiuti che entrano nella Striscia. Gli egiziani sono stati i primi a reagire e hanno mandato una squadra nella Striscia per cercare i corpi dei defunti, seguendo le indicazioni dell’esercito e dell’intelligence israeliani. Israele ha dimostrato di sapere molto di più di quello che Hamas pensa. Soltanto nel pomeriggio i terroristi hanno comunicato che entro le dieci di sera di martedì avrebbero consegnato i resti di altri quattro ostaggi. Le famiglie dei morti non sanno chi tornerà fino a pochi istanti prima che Hamas indichi alla Croce Rossa il punto nella Striscia in cui andare a recuperare i corpi. E l’attesa si estende, perché per essere veramente sicuri che i loro mariti, figli, genitori possano essere sepolti, bisogna aspettare gli esami che ne confermano l’identità: è già successo che Hamas abbia rimandato in Israele i resti di un estraneo. Quando Eli Haimi decide di parlare con alcuni giornalisti ha già avuto la notizia che quattro corpi sarebbero stati restituiti, ma non sa se tra loro ci sarà quello di suo marito Tal.
“Mio marito era un ingegnere meccanico ed era il capo della squadra di primo soccorso del kibbutz Nir Yitzhak”, le kikat konenut presenti in ogni kibbutz sono state le prime ad affrontare Hamas la mattina del 7 ottobre. “Quando fai parte della squadra pensi che il massimo che dovrai affrontare sia l’infiltrazione di due terroristi in attesa che presto arrivi l’esercito”. I combattenti della kikat konenut di tutte le comunità attaccate dovettero invece lottare contro Hamas per ore prima che arrivassero i soldati. “Tal è uscito dopo i primi razzi, mi ha chiamata cinque minuti dopo per dirmi che c’erano molti terroristi nel kibbutz e di stare nel rifugio. L’ho richiamato più tardi, mi ha detto che andava tutto bene e che non poteva parlare”. Quando Eli è uscita dal rifugio con i suoi tre figli ha visto che il telefono di suo marito era localizzato a Khan Younis, “e ho pensato che fosse una buona notizia, anche per i soldati lo era. Ci sembrava volesse dire che non era tra i copri dei morti che vedevano nel kibbutz, ma che era stato preso e sarebbe stato salvato. Allora l’ho detto anche ai miei figli, gli ho mostrato una mappa per far vedere quanto Khan Younis, nella Striscia, fosse vicina a Nir Yitzhak e questa vicinanza in qualche modo rassicurava me e loro”.
Due mesi dopo, Eli ha ricevuto la notizia della morte di Tal. “Ero incinta, sapevo che il nostro quarto figlio sarebbe nato senza un padre”. E’ stato quello il momento in cui Eli ha scelto di organizzare un finto funerale per Tal, pensava che i suoi avessero bisogno di una chiusura: “Abbiamo sepolto una bara vuota, all’interno abbiamo messo soltanto l’elmetto con cui ha combattuto. Ho visto delle immagini nel 7 ottobre, facevo fatica a riconoscere mio marito, si muoveva come un soldato”. Tal è stato ucciso il giorno dell’attacco di Hamas, i fori sull’elmetto mostrano che è stato colpito in testa, “è stato colpito da lontano, ma è stato rapito che già non era più in vita”. Tre mesi fa Eli è tornata a Nir Yitzhak con i suoi tre figli che hanno conosciuto il padre e con il quarto che mai lo vedrà, “lo abbiamo chiamato Lotan, contiene le tre lettere del nome Tal”. Eli vive vicino al confine con Gaza, ha vissuto l’attacco di Hamas, conosce i ricatti dei terroristi, teme il ritorno della guerra e sa che quella bara potrebbe rimanere vuota per sempre.