il caso

Il mistero sulla visita del leader indonesiano in Israele (e l'assenza totale della Cina)

Giulia Pompili

Prabowo per ora non vola a Tel Aviv. Il gioco sottile dell’Indonesia e del sud-est asiatico tra sostegno alla Palestina e realpolitik. Che cosa è cambiato e cosa non cambia mai: Pechino e i suoi interessi

Ieri il ministero degli Esteri indonesiano ha smentito la possibilità di una storica visita del presidente Prabowo Subianto in Israele dopo il vertice di pace di Sharm el Sheikh, in Egitto, come avevano riportato ieri alcuni media israeliani. “Non è vero”, ha detto la portavoce Yvonne Mewengkang, Prabowo “tornerà in Indonesia una volta concluso l’evento in Egitto”. Il quotidiano israeliano Times of Israel ieri aveva citato alcune fonti anonime sul fatto che oggi  Prabowo sarebbe arrivato a compiere “la prima visita di un capo di stato indonesiano in questo paese”. Lo stato ebraico non è riconosciuto dal governo di Giacarta, che rappresenta il paese musulmano più popoloso del mondo, e non esiste una rete diplomatica ufficiale tra i due paesi. Eppure negli ultimi anni, soprattutto dopo la spinta degli Accordi di Abramo del 2020, Giacarta e Tel Aviv avevano iniziato un dialogo informale per la normalizzazione delle relazion. Ieri Ria Novosti, l’agenzia di stampa del Cremlino, aveva citato  il consigliere dell’ufficio del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, Dmitri Gendelman: “Sono in corso i preparativi preliminari per l’arrivo del presidente indonesiano in Israele domani”. Poi è arrivata la smentita ufficiale. I giornali indonesiani nella giornata di ieri non avevano rilanciato la notizia, una cautela dovuta, secondo alcune speculazioni, al fatto che la visita a sorpresa era effettivamente in programma, ma qualunque anticipazione avrebbe portato all’annullamento della stessa. 

 


Nelle ultime settimane Prabowo Subianto è diventato il simbolo di una regione, quella del sud-est asiatico, pronta a fare la sua parte anche in medio oriente. Prabowo aveva fatto un discorso molto potente all’ultima Assemblea generale delle Nazioni Unite a New York, rendendosi disponibile a mandare truppe di terra per garantire la sicurezza della Palestina e unendo esplicitamente le garanzie di sicurezza della popolazione palestinese a quelle – altrettanto importanti e legittime – di Israele. Secondo il Jakarta Globe, il volto del presidente indonesiano è apparso di recente sui cartelloni elettronici di Tel Aviv. L’opinione pubblica indonesiana è da sempre molto legata alla causa palestinese, e la strategia del gabinetto del presidente è necessariamente cauta. 

Ma l’Indonesia, che ha una lunga storia di colonizzazione da parte di olandesi e portoghesi che finì nel 1949, è anche uno dei paesi che meglio rappresenta la lotta all’estremismo e al terrorismo islamico. Domenica sera sull’isola di Bali, al monumento Ground Zero di Kuta, si è commemorato il 23° anniversario degli attentati del 2002, la più grave tragedia terroristica nella storia dell’Indonesia che uccise oltre 200 persone devastando il principale indotto economico dell’isola, il turismo. Negli anni dopo quel trauma il paese ha cambiato il suo approccio all’estremismo, e le capillari operazioni antiterrorismo volute dal governo  hanno reso i gruppi estremisti nel paese deboli, frammentati, ormai poco influenti. In un’analisi pubblicata lo scorso anno da East Asia Forum, Alif Satria scriveva che non è un caso se il gruppo jihadista Jemaah Islamiyah, responsabile degli attacchi di Bali, non ha partecipato all’Intifada globale chiamata da Hamas. 

 


Una eventuale apertura dell’Indonesia non solo al riconoscimento di Israele ma alla normalizzazione delle relazioni avrebbe un effetto potente in tutta la regione del sud-est asiatico. In Malaysia, per esempio, l’altro paese a maggioranza musulmana dove il primo ministro Anwar Ibrahim ha sempre dichiarato il sostegno politico ad Hamas e non ha mai condannato l’attacco del 7 ottobre, le posizioni su Israele sono meno dure di un tempo: in un’intervista alla Cnn di cui si è discusso molto, pubblicata quasi un anno fa, alla domanda se riconoscesse il diritto di Israele a esistere e a difendersi, Anwar ha risposto semplicemente: “Sì, sì”. Mentre  Prabowo ieri era a Sharm el-Sheikh alla riunione sul piano di pace con Trump, Anwar non ha partecipato – non è chiaro il perché. Ma da Kuala Lumpur  ha detto che la Malaysia “appoggerà questa iniziativa. Potrei avere delle divergenze con molti di loro, ma non importa: su temi di pace e dignità umana dovremmo essere uniti”. 
A mancare, come spesso succede, è il ruolo della Repubblica popolare cinese, autodichiarata leader del cosiddetto Sud globale. Nessun funzionario della leadership di Pechino ha commentato la proposta di pace americana. Rispondendo a una domanda  in conferenza stampa, ieri  il portavoce del ministero degli Esteri Lin Jian ha detto solo che “la Cina, come sempre, continuerà a svolgere il suo ruolo di grande potenza responsabile  per raggiungere al più presto una soluzione globale, giusta e duratura alla questione palestinese”. Sempre però senza sporcarsi le mani. 
 

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.