(foto EPA)

il ruolo americano

Un medio oriente formato Trump

Micol Flammini

Oltre gli ostaggi. Il presidente americano arriva in Israele e in Egitto per passare alla seconda fase del  piano e Hamas sta già facendo di tutto per renderla complessa. Il successo del nuovo medio oriente dipende dalla velocità con cui si passerà dalle celebrazioni alla realizzazione

Gerusalemme, dalla nostra inviata. Il teatro di Donald Trump in Israele si estenderà lungo un percorso di 50 chilometri. Dall’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv alla Knesset, il Parlamento israeliano, a Gerusalemme. Due atti per un massimo di quattro ore da trascorrere sul territorio dello stato ebraico. La strada 1 sarà il tappeto rosso del presidente americano, le bandiere a stelle a strisce appese su tralicci e lampioni sono le quinte di una visita che segnerà il culmine del mito del presidente nel paese. Gli israeliani non smettono di mostrargli gratitudine da quando ha annunciato, giovedì scorso, che l’accordo per la liberazione degli ostaggi e il cessate il fuoco a Gaza era stato trovato. Improvvisamente, Israele è diventato americanissimo, trumpianissimo. Trump dovrà industriarsi a tenere il conto di tutti manifesti di ringraziamento, promessa, stima. Delle immagini giganti che lo paragono a Ciro il grande, che permise agli ebrei di tornare in patria e ricostruire il tempio di Gerusalemme, agli schermi sui grattacieli che lo esortano: “Don’t stop! All the way to normalization!” (Non fermarti, avanti tutta verso la normalizzazione!), recita uno dei cartelli montati nelle prime ore di domenica. Trump è il re straniero, osannato e ringraziato fino all’idolatria.

Per uscire dal 7 ottobre gli israeliani hanno scelto di fare affidamento sugli Stati Uniti, di abbandonarsi alla guida di Trump e al suo piano per il nuovo medio oriente.  Subito dopo essere stato in Israele, il presidente americano volerà in Egitto, dove lo attende la coalizione dei paesi arabi che sostiene il progetto presentato per mettere fine alla guerra fra Israele e Hamas, con i leader di Italia, Francia, Germania, Regno Unito, Spagna, Grecia, Ungheria, Cipro, Giappone, Azerbaigian, Armenia, India, El Salvador, Bahrein, Kuwait e Canada. Si chiude oggi la prima fase del piano che prevedeva il ritiro di Tsahal, il cessate il fuoco, la liberazione degli ostaggi e la scarcerazione dei detenuti palestinesi. Inizia con le celebrazioni a Sharm el Sheikh il cantiere per rimettere in piedi la Striscia di Gaza, che non può iniziare senza il disarmo di Hamas. La direzione di Israele e della coalizione del vertice di Sharm el Sheikh è la stessa, anche se il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, non prenderà parte all’incontro. La storia che invece raccontano le strade di Gaza è molto diversa: subito dopo il ritiro di Tsahal, i miliziani di Hamas hanno iniziato a uscire dai tunnel, con le insegne “Sicurezza interna”. Hanno iniziato ad arrestare, ad aggirarsi fra i civili mentre abbandonavano le zone umanitarie. E’ il primo segnale di un tentativo del gruppo di cambiare marchio e di essere determinato a rimanere non soltanto dentro la Striscia, ma al comando della Striscia. La seconda fase del piano di Trump potrà partire soltanto dopo il disarmo di Hamas, invece i miliziani vogliono dimostrare di essere inscindibili da Gaza, di poter governare ogni aspetto della vita dei cittadini. Secondo la Bbc, una testata che da due anni ha mostrato di essere molto lontana dalle ragioni di Israele, il gruppo ha mobilitato 7.000 miliziani per prendere il controllo delle zone da cui i soldati israeliani si sono ritirati. Il comando era chiaro: “Ripulire Gaza dai fuorilegge e dai collaboratori di Israele”. Sono iniziati gli scontri con altri clan armati. Hamas si è mosso in fretta, è determinato a restare, a dichiarare guerra a tutti coloro che dentro Gaza cercheranno di fare in modo che non si realizzino le condizioni per il piano promesso da Trump. 

Fino a questo momento è stato il tempo della celebrazione per la promessa di una pace che per ora è soltanto un cessate il fuoco. Da adesso parte invece la corsa alla realizzazione del piano, nella sua parte più complessa. Non sono ammessi piani B, Trump viene a prendersi la gloria di un paese che si è sentito abbandonato dalla sua leadership, poi andrà a raccogliere gli impegni dei leader riuniti a Sharm el Sheikh. Il successo del nuovo medio oriente, promesso dal presidente americano, lo farà la velocità con cui si passerà dalle celebrazioni alla realizzazione del progetto.

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)