
Foto LaPresse
il racconto
La piazza della speranza di Tel Aviv
Dopo due anni, Kikar HaChatufim è pronta a passare al dopo. Ma prima ha bisogno che tutti gli ostaggi tornino a casa. Passato e futuro imminente di uno spiazzo un tempo anonimo che vuole guidare Israele
Tel Aviv, dalla nostra inviata. La linea la detta il venditore di bagel che da due anni fa avanti e indietro con il suo carrello della spesa: “Ciao a tutti – grida agitando le mani – io me ne vado. A Kikar HaChatufim non ci vengo più, non servo più. Adesso, se volete i bagel, dovete venire allo stadio Bloomfield, mi trovate lì. A Kikar HaChatufim ho finito. Ciao, non torno più”. Tornerà, il lavoro a Piazza degli Ostaggi di Tel Aviv non è terminato. I vivi, tra i quarantotto ostaggi ncora dentro la Striscia di Gaza, non sono ancora tornati, i morti sono in una doppia trappola da parte dei terroristi: la trappola del ricordo dei loro ultimi istanti di vita che nessuno potrà mai raccontare e quella dell’incuria che oggi li rende, a detta di Hamas, difficili da recuperare. Piazza degli Ostaggi aspetta un ultimo momento: aspetta il ritorno di tutti per poi scomparire, essere inghiottita dal tempo. Due anni fa, lo spiazzo davanti al Museo d’arte di Tel Aviv era una spianata di cemento. Non aveva neppure un nome, senza alberi, senza panchine, un posto in cui passare, senza fermarsi. Da due anni questo spiazzo anonimo ha un nome non ufficiale, Piazza degli Ostaggi, ma ormai riconoscibile da tutti. E’ diventato il cuore della città, il centro in cui riunirsi per ricordare il 7 ottobre, cercare conforto ed esprimere solidarietà alle famiglie dei rapiti, degli uccisi, dei torturati e dei sopravvissuti. Non c’è stata settimana in cui Piazza degli Ostaggi non abbia gridato, manifestato, pianto. Da luogo del conforto si è trasformato in spazio dell’attesa, quella da riempire per ricordare che gli israeliani non sarebbero andati avanti senza i loro ostaggi a casa. Per la prima volta, dopo l’annuncio del cessate il fuoco fra Israele e Hamas, la piazza è diventata un vulcano di speranza. Ha iniziato a ballare, sfrenata, in una danza che coinvolgeva tutti, israeliani di ogni estrazione. Fino a quel momento, tutti avevano contato i giorni trascorsi dal 7 ottobre, i giorni di prigionia: 10, poi 56, poi 362, poi 600, poi 733. Da quel momento, l’istante dell’annuncio di un accordo, il conto si è invertito. Il tabellone della piazza, nero con i numeri rossi, ha continuato a calcolare i giorni dall’inizio della guerra, ma i cittadini hanno iniziato un conto interiore, un conto diverso, un conto alla rovescia per tenere il tempo che separa il paese dal ritorno dei rapiti. Mentre ballava, la piazza ha iniziato a domandarsi per la prima volta cosa sarebbe diventata quando i quarantotto ostaggi sarebbero tornati a casa. “Sono venuta qui almeno una volta a settimana per due anni. All’inizio venivo per non sentirmi sola dopo il 7 ottobre, poi ho capito che la mia paura era nulla confronto al buio che stavano affrontando le comunità del sud”. Riva indossa una maglia con i volti di Ziv e Gali Berman, i gemelli rapiti dal kibbutz Kfar Aza. I loro nomi sono sulla lista dei vivi, nulla è certo fino a quando non saranno tornati. Riva non li conosce, non è neppure di Kfar Aza, ma ha scelto una storia, ha scelto i loro volti. Ognuno qui ha adottato qualcuno, una storia, una tragedia, si fa portavoce di un ostaggio per rappresentarli tutti, i vivi come i morti. “Quando torneranno a casa dovrò decidere cosa fare con questa maglietta. Non credo la butterò, la conserverò. Oppure cercherò di regalarla a Ziv e Gali, dirò loro: vi abbiamo aspettato, abbiamo lottato”. In Israele sembra che tutti conoscano tutti, in un paese di meno di dieci milioni di abitanti la regola dei sei gradi di separazione sembra ridotta almeno a tre. In Piazza degli Ostaggi si riduce ulteriormente: tutti conoscono tutti. I nomi dei rapiti sono pronunciati con la confidenza che si riserva agli amici di famiglia: Ziv, Gali, Matan, Guy, Nimrod. Tutti li chiamano per nome. Anche i loro familiari sono ormai intimi: “C’è Einav”, indicano due donne per segnalare l’arrivo in piazza della madre di Matan Zangauker, abbracciata da tutti, con il volto smunto che spunta, segnato, sotto la massa di capelli nerissimi e per la prima volta con un sorriso, indebolito tra le guance ormai buttate giù dalla rabbia e dal pianto. Non la conoscono, ma in fondo hanno l’impressione di conoscerla da sempre, sicuramente da questi due anni che l’hanno trascinato fino a qui. “Sono a Piazza degli Ostaggi”, si sente gridare ai telefoni per sovrastare il chiasso: c’è sempre della musica, o una preghiera, un concerto improvvisato o programmato, qualcuno che parla per farsi portavoce di paure e speranze, o una protesta. In due anni, qui non c’è mai stato silenzio, se non nei dodici giorni dei cinquecentonovanta missili lanciati dall’Iran nel giugno scorso.
Nei primi giorni dopo l’attacco di Hamas, c’è stato bisogno di uno spazio per le famiglie degli ostaggi, per dare loro informazioni. Molti non sapevano nulla, aspettavano notizie, per settimane hanno vegliato in attesa di una delle tre risposte possibili su chi era scomparso: la morte, il rapimento o la morte e il rapimento del corpo senza vita. La città di Tel Aviv assegnò al Quartier generale delle famiglie degli ostaggi gli spazi non distanti dalla Kirya, la sede del ministero della Difesa che ospita anche una base militare davanti alla quale nei mesi prima del 7 ottobre avevano fatto avanti e indietro le manifestazioni contro la Riforma della giustizia. La piazza senza nome, che non era neppure una piazza, era il luogo di mezzo, naturale e vicino, tra il Quartier generale, la Kirya e via Kaplan, la strada delle proteste. Chi voleva manifestare contro Benjamin Netanyahu, accusato di essere freddo e menefreghista nei confronti della sorte degli ostaggi, non voleva farlo in un posto caratterizzato da altre istanze. Questa volta era tutto diverso, anche se i popoli delle manifestazioni erano molto simili, era giusto che protestassero in posti separati. La spianata di cemento ha iniziato a riempirsi dei volti degli ostaggi, prima piccole fotografie, poi cartonati enormi. I lineamenti dei duecentocinquanta tra gli edifici Bauhaus hanno iniziato a imprimere sulla città un nuovo spirito. Non era più la Tel Aviv dagli edifici bianchi e del mare, il paradiso della vita comunitaria all’aria aperta. Era la Tel Aviv che gridava che mai e poi mai Israele sarebbe andato avanti senza i cittadini rapiti. Che mai e poi mai il paese avrebbe potuto rialzarsi permettendo che oltre duecento persone rimanessero nel sottosuolo di Gaza, alla mercé dei terroristi. Era la Tel Aviv in cui la movida delle notti con la brezza marina si perdeva dentro la memoria di un 7 ottobre mai terminato. Era però anche la Tel Aviv che prometteva al paese: certo che ne usciremo, ma tutti insieme, quando saranno tornati tutto. Una capitale di fatto azzurra per il mare e il cielo prepotentemente terso è diventata gialla, il colore dei lacci che tutti hanno iniziato a portare in solidarietà con gli ostaggi, gli stessi lacci che nel 2006 sventolavano per il paese dopo il rapimento da parte di Hamas del soldato Gilat Shalit. Per liberare Shalit, Israele e il suo premier Netanyahu furono disposti a scarcerare più di mille detenuti palestinesi, tra loro c’era anche l’ergastolano Yahya Sinwar. Il ritorno del giallo, ripiombava Tel Aviv proprio in quello scambio, improvvisamente la attanagliava alla domanda più dolorosa che forse Israele si sia mai dovuto fare dalla sua fondazione: rispettare il principio che portò alla liberazione di Shalit, secondo il quale lo stato deve essere disposto a tutto per riportare a casa ognuno dei suoi cittadini, dando ai terroristi un’arma di ricatto eterna, oppure stravolgere questo principio, chiudere il circolo perpetuo dei rapimenti e delle liberazioni sulla pelle degli ostaggi del 7 ottobre? Tel Aviv aveva sciolto questo dubbio fin dall’inizio, senza esitazioni. Israele ancora si interroga e continuerà a interrogarsi su cosa sarebbe stato giusto fare. Per due anni i volti degli ostaggi hanno guardato i passanti, i nastri gialli sotto forma di spilla, di collana, di adesivo, erano addosso a chiunque volesse dire: senza di loro non saremo mai completi. Per ogni festa, la piazza ha ospitato celebrazioni e preghiere. Sono comparsi i Seder di Pesach, lunghe tavolate con una sedia per ogni ostaggio. Sono comparse capanne per la festa di Sukkot. Qualche venerdì, le famiglie degli ostaggi hanno recitato con gli altri cittadini il kiddush, la preghiera che apre lo Shabbat. In piazza è comparso un pianoforte, in cui chi vuole inizia a suonare, cantare, ogni canzone è un pensiero agli ostaggi. E’ comparso un finto tunnel in cui entrare e provare a immaginare come possono sentirsi i rapiti senza luce, senza aria, ma la rappresentazione è troppo ingenua per permettere l’immedesimazione. Per i cittadini di Tel Aviv girare con il fiocco giallo è un segno di riconoscimento, il segnale di essere un membro della tribù della città e di qualche sottotribù sparsa nel resto del paese. Qualcuno gira con più di un nastro giallo. Oppure con il nastro giallo messo come bracciale, con una spilla gialla appuntata sulla borsa o dove capita e con la maglia con la scritta “Riportateli a casa”. La tribù di Piazza degli Ostaggi ha il compito di continuare a svegliare, ricordare. Dai primi giorni dopo l’attacco è arrivato un casottino per vedere le magliette e le spille. Poi la produzione è aumentata, sono spuntate le collane, gli adesivi, i cappelli, le sportine. Tutto quello che può essere necessario per ricordare al paese che senza di loro, senza gli ostaggi, non si va avanti. Il denaro speso per i gadget della tragedia viene in parte dato alle comunità devastate da Hamas, in parte per mandare avanti il lavoro del Forum delle famiglie degli ostaggi. Il casottino bianco ha iniziato ad allargarsi, poco dopo vicino ne è spuntato un altro. Al centro della piazza sono stati messi dei gazebo, sotto ai gazebo i cittadini si siedono in circolo per parlare, per aggiornarsi. Si siedono con i sopravvissuti, con i giornalisti, con le famiglie dei rapiti o degli uccisi, con qualche politico dell’opposizione. Poi hanno iniziato a sedersi in circolo anche i soldati, per raccontarsi i traumi, le paure, le motivazioni. Tutto questo va ancora avanti, nonostante l’accordo, nonostante la promessa del ritorno degli ultimi quarantotto rimasti dentro la Striscia. “Rimaniamo tutti in ostaggio fino a quando non saranno liberati” è una frase che ricorre, la ripetono in molti, come lo slogan: “Siamo con voi, non siete soli”, scandito alle famiglie dei rapiti. E sembra davvero che la Piazza si stringa attorno alla storia di ogni sopravvissuto all’attacco o al dolore, in un gesto naturale in un paese-famiglia. Molti cittadini vengono in piazza con un pezzo di scotch attaccato al petto con il conto di prigionia. Giovedì, dopo l’annuncio di Trump, una signora al posto del solito numero aveva scritto “sof sof”, finalmente.
Piazza degli Ostaggi vuole aspettare i rapiti ballando. Alcuni gruppi cantano e suonano i Beatles, altri con le magliette rosa intonano marcette dell’esercito che tutti conoscono. Poi arriva il momento delle canzoni israeliane. Si salta, si balla, ci si stringe. E’ un fiume continuo di gente, di tutte le età che non può aspettare da sola il momento della liberazione. Al mattino presto si prega, alla sera si preparano i tavoli per la cena di Shabbat. Tel Aviv, da questa piazza, ha spinto un paese, o almeno così si illude di fare. Da qui nascerà probabilmente la prossima classe politica che sfiderà il primo ministro. Dopo due anni che gli israeliani hanno pianto, sperato, atteso in un unico spazio, dopo che dal cemento sono emersi i segni, i monumenti di carta per non dimenticare il 7 ottobre, cosa ne sarà di Kikar HaChatufim? “Nulla, verrà smantellato tutto. Non credo sia stata presa una decisione, ma le cose alla israeliana vanno così: ce l’abbiamo fatta, andiamo avanti. Non avremo più bisogno di questo, possiamo ricominciare”, dice una signora che ha saltato euforica tutto il giorno, dopo l’annuncio dell’accordo. Una ragazza che invece vende le magliette, le spille, i gadget della tragedia è meno sicura: “Di tutto questo – dice indicando la merce in vendita – credo che non rimarrà più nulla. Non so se la gente continuerà a usare le magliette, chissà che effetto farebbe agli ostaggi. Ma sicuramente non ci saranno monumenti”. Chissà se la piazza inizierà mai ad avere un nome ufficiale? “Dovrebbe averlo”, sussurra pensosa. Proprio mentre potrebbe sembrare ovvio che stia per suggerire il nome che allo spiazzo è stato assegnato negli ultimi due anni, Piazza degli Ostaggi, dice: “Dovrebbe chiamarsi Piazza della Speranza”.