
Ansa
Medio Oriente
Non c'è tempo per i dubbi: Hamas ha perso in Israele e a Gaza. Ballare sotto la pioggia
Tel Aviv ha risposto colpendo uno per uno i nemici che lo circondavano, inclusa la testa di questa macchina della guerra, l’Iran. Questo accordo non è una pace, è un cessate il fuoco. Lo sanno tutti, israeliani, palestinesi, qatarini, turchi. Ma è l’unica svolta possibile
Tel Aviv, dalla nostra inviata. In qualsiasi altra regione del mondo, l’incipit adatto a raccontare il momento storico sarebbe: e improvvisamente spuntò il sole. Ma il medio oriente non è una regione qualsiasi del mondo. Qui, dopo l’annuncio dell’accordo fra Israele e Hamas per liberare gli ostaggi e raggiungere il cessate il fuoco nella Striscia di Gaza, improvvisamente, è arrivata la pioggia. Uno scroscio potente, senza avvisaglie. Tel Aviv, zuppa, ha iniziato a ballare, a cantare, ad agitare bandiere israeliane e americane spuntate con tanta velocità che sembravano saltare fuori dalla terra. Kikar Hachatufim, la Piazza degli ostaggi, si è riempita di un movimento spontaneo di partecipazione cittadina: sono giorni di festa, i bambini non vanno a scuola e molti non lavorano ma forse, anche se fosse stato un giorno feriale, tutto sarebbe stato permesso per festeggiare.
Dall’altra parte, dalla Striscia, arrivavano video di civili in festa, canti diversi, balli simili. I due popoli hanno reagito facendo la stessa identica cosa: gioendo. Il presidente americano, Donald Trump, ha voluto annunciare l’accordo per primo. Se lo è intestato, lo ha plasmato. Dopo tre giorni di negoziati serrati a Sharm el Sheikh, in Egitto, fra le delegazioni di Israele e Hamas e i mediatori egiziani, qatarini, turchi e infine americani, ne è uscita una creatura diversa rispetto ai venti punti che il presidente americano aveva presentato come un aut aut: o prende questo accordo o Hamas verrà sradicato e conoscerà “l’inferno”. Hamas non ha voluto l’inferno, ha scelto la sopravvivenza.
L’accordo sarà in più fasi e adesso si entra nella prima che prevede la liberazione degli ostaggi vivi, sono circa venti e Hamas ha fornito la lista con i nomi, il cessate il fuoco e il ritiro parziale di Tsahal dalla Striscia. Le due parti hanno dibattuto a lungo sui prigionieri palestinesi che usciranno dalle carceri israeliane, sono circa duecentocinquanta ergastolani condannati per terrorismo. I corpi degli ostaggi uccisi a Gaza o il 7 ottobre saranno ricondotti in Israele in un secondo momento. I terroristi sostengono di non poter identificare le salme tra le macerie della Striscia ed è stato stabilito che una squadra costituita da membri del gruppo, egiziani, turchi, americani e anche israeliani, entreranno fra le rovine di Gaza per cercare i corpi che aspettano di essere sepolti: fra loro ci sono anche tre americani. Saranno fondamentali le informazioni dei terroristi e le informazioni raccolte dall’intelligence israeliana. Anche gli scettici sembrano essersi rasserenati, “se mi avessero chiesto quarantotto ore fa, se qualcosa nella prima parte dell’accordo potesse andare male, avrei risposto di sì”, dice il generale Amos Yadlin, famoso per aver condotto il bombardamento contro il reattore nucleare iracheno Osirak. Oggi Yadlin crede che gli ostaggi verranno davvero liberati, ma la seconda fase del piano sarà più rischiosa e complicata.
C’è il rischio che tutto vada in pezzi, soprattutto se Hamas non collaborerà per ritrovare i corpi degli ostaggi e si rifiuterà di cedere le armi. L’entusiasmo, la gioia, la voglia di rivedere i rapiti e strapparli dalla prigionia di Hamas rischiano di essere fumo negli occhi mentre sul terreno le condizioni sono tutt’altro che semplici. Ma non c’è spazio per queste preoccupazioni fra gli israeliani che festeggiano. I fallimenti possibili oggi sono calcoli per gli analisti, già proiettati nella seconda fase. Dopo due anni, un conflitto sembra destinato a durare per sempre, si fa fatica immaginare davvero la fine dei combattimenti o il ritorno di tutti gli ostaggi. Tel Aviv vive come una città ansiosa e malata, in Piazza degli ostaggi c’è una ferita aperta che fino a ieri veniva curata con la solidarietà e il sostegno di una comunità intera, oggi invece viene bendata con lo stupore e la speranza. Alcune variabili sono state essenziali per arrivare all’accordo. Prima fra tutte Donald Trump a cui gli israeliani rivolgono ringraziamenti continui, anche Yadlin sottolinea più volte che il presidente americano merita stima e fiducia. Trump sarà in Israele domenica, terrà un discorso alla Knesset, il Parlamento israeliano. La data del suo arrivo rende tutti ancora più speranzosi: non si scomoda il presidente americano per un’intesa che potrebbe fallire già nella prima fase e soprattutto il suo arrivo potrebbe significare che i venti ostaggi vivi verranno portati fuori da Gaza prima di lunedì, giorno indicato come limite temporale massimo per la loro liberazione. Il governo israeliano ha ritardato di due ore il voto per approvare l’accordo nel Consiglio dei ministri, ma nonostante l’attesa, percepita come l’ennesima prova della mancanza di empatia con le famiglie degli ostaggi (l’accordo per partire aveva bisogno del voto), c’era la consapevolezza che non sarebbero stati i ministri estremisti di Netanyahu a bloccare l’intesa.
Tutto il disegno di Hamas è crollato: Israele ha resistito, gli Accordi di Abramo sono in piedi e al centro di un’architettura che non è interesse di nessuno far cadere, i sauditi sono ancora impegnati in un processo di normalizzazione futuro con gli israeliani. Hamas sperava di trascinare Israele in una guerra su più fronti, invece Israele ha risposto colpendo uno per uno i nemici che lo circondavano, inclusa la testa di questa macchina della guerra, l’Iran. Se Tsahal non avesse dimostrato di essere capace di colpire la Repubblica islamica, difficilmente Turchia e Qatar si sarebbero impegnati a seguire le direttive di Trump e a esercitare la pressione necessaria per convincere Hamas. Questo accordo è anche l’esito della Guerra dei dodici giorni. Non è una pace, è un cessate il fuoco. Lo sanno tutti, israeliani, palestinesi, qatarini, turchi. Ma è l’unica svolta possibile.

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