
il racconto da tel aviv
Israele onora la memoria, ma non vuole ripartire dalle lacrime. Speranze nel piano
Piazza degli ostaggi, lo spiazzo davanti al Museo d’arte di Tel Aviv, è diventato un luogo di psicoterapia nazionale. Il lutto isolato su un paese abituato a essere circondato da nemici
Tel Aviv, dalla nostra inviata. Un giorno di festa in un giorno di lutto. Il 7 ottobre è stato il primo giorno di Sukkot, la festa delle capanne che ricorda il cammino del popolo di Israele dopo la liberazione dalla schiavitù in Egitto. E’ una festa gioiosa, quasi tutto si ferma. Tel Aviv è immersa in questa atmosfera di vacanza, è sonnolenta come accade a ogni città durante le feste, ma oggi non si può festeggiare: oggi prima di Sukkot è il 7 ottobre e dall’attacco di Hamas sono trascorsi due anni. Per qualcuno sono “soltanto due anni”, per altri “già” due anni. La misura del tempo è quanto di più personale possa esistere e gli israeliani sono entrati in questa data di festa e lutto con la consapevolezza che non avrebbero trascorso un giorno normale. Gli anniversari obbligano a fare bilanci, sono appuntamenti matematici e i numeri di queste commemorazioni sono pesanti: Hamas ha ucciso 1.200 persone, ne ha rapite oltre 250; Israele è entrato in guerra contro i terroristi e il numero delle morti palestinesi supera, secondo le stime delle autorità della Striscia di Gaza, le 60 mila persone tra civili e miliziani; gli ostaggi israeliani nelle mani del gruppo sono ancora 48; i soldati di Tsahal uccisi sono oltre 900.
Prima del 7 ottobre, il medio oriente stava andando verso una rivoluzione dettata dalla possibile normalizzazione dei rapporti fra Israele e Arabia Saudita. Dopo il 7 ottobre, il medio oriente è stato rivoluzionato dalla necessità di Israele di colpire tutti i suoi nemici, non lasciare zone grigie, liberarsi dell’anello di fuoco che l’Iran gli aveva stretto attorno, entrando in guerra con Hezbollah in Libano, con la Repubblica islamica e favorendo così anche la cacciata di Bashar el Assad dalla Siria. Una cascata di eventi, scaturita da una spaccatura dolorosissima e imposta dal gruppo dei terroristi che il paese pensava fosse l’ultimo dei suoi problemi e che ha spazzato via anche l’idea della convivenza. Oggi gli israeliani commemoravano e Hamas celebrava il giorno del massacro, per festeggiare ha anche lanciato un razzo, un rimasuglio dell’arsenale. Non ha fatto danni, ma ha mandato il messaggio chiaro di essere disposto a fare e rifare il 7 ottobre. Una cosa rende il gruppo ancora più sicuro: la colpa delle vittime civili dentro Gaza nessuno la imputa ai terroristi che hanno iniziato la guerra, hanno costruito tunnel per nascondersi ma non rifugi per i loro cittadini, si sono mischiati tra la popolazione mettendola a rischio. Tutti la imputano soltanto a Israele. Molti israeliani in questi giorni si domandano cosa stia accadendo in Italia, vedono le manifestazioni, i cartelli, traducono gli slogan. Si rendono conto di essere soli a commemorare.
Un gruppo di persone sedute in circolo in Piazza degli ostaggi, lo spiazzo davanti al Museo d’arte di Tel Aviv diventato un luogo di psicoterapia nazionale, condivide le proprie memorie del 7 ottobre. Tra loro siedono anche dei sopravvissuti. Un signore con ostentato ottimismo dice: “Ovunque ci sono proteste contro di noi, ma passerà. A noi invece rimarrà il trauma”. L’isolamento è evidente, ma pesa in modo limitato su un paese abituato a essere circondato da nemici. Questo anniversario però ha una sfumatura diversa, dettata dalla speranza che l’accordo per la liberazione degli ostaggi si stia per concludere. Non ci sono prove, ieri i negoziati a Sharm el Sheikh si sono conclusi con “ottimismo”, hanno detto tutte le parti. L’inviato americano per il medio oriente, Steve Witkoff, dovrebbe intervenire domani e il suo arrivo è sempre una buona notizia, vuol dire che la soluzione è più vicina. Il presidente americano Donald Trump ha mandato una lettera alle famiglie degli ostaggi, promettendo loro che riporterà a casa i rapiti. Eylon Levy, ex portavoce del primo ministro Netanyahu, è meno ottimista del presidente americano: “Vediamo tanto entusiasmo, ma lo abbiamo visto troppe volte. Fa male a chi aspetta una soluzione da due anni”.
Tutto il paese è pieno di commemorazioni. Molti abitanti dei kibbutz sono tornati al sud per tirare fuori la memoria di quel giorno, sono tornati in quel che resta delle loro case colpite, bruciate. Ci sono cose che non si possono aggiustare, il 7 ottobre è una di queste. Ognuno dei sopravvissuti si porta dentro dolore e rabbia. Ohad Ben Ami, liberato dopo 491 giorni di prigionia nei tunnel, dice che la cosa che lo fa più arrabbiare è il comportamento della Croce Rossa: “Ho chiesto perché non siano mai venuti a visitarci. Mi hanno risposto che Hamas non lo permette. Che senso ha? Non dovrebbero essere neutrali?”, protesta. Da questi posti distrutti, da sempre ostili al primo ministro Netanyahu, deve iniziare, dopo la guerra, il primo segnale di ricostruzione, di ripartenza. “Israele si sentirà guarito quando queste persone avranno il coraggio di tornare a vivere al confine con Gaza”, dice una signora nella sessione di psicoterapia nazionale. Il ritorno dipende dalla seconda fase dell’accordo, se Trump e i suoi rimarranno seri nella volontà di slegare la Striscia da Hamas. L’accordo potrebbe portare anche alla caduta del governo e questa volta l’opposizione per ottenere la fine della guerra, costi quel che costi, ha già detto che aiuterà il premier se i partiti di estrema destra decideranno di abbandonare il governo: “Confermo che offro a Netanyahu una rete di salvataggio”, assicura Yair Lapid, leader del partito Yesh Atid, circondato da guardie del corpo, mentre sfreccia anche lui in Piazza degli ostaggi.