speciale 7 ottobre

Ostaggi di Hamas e dimenticati dal mondo. I 48 che Israele aspetta

Micol Flammini

La conta del tempo è stravolta e non finirà fino a quando i quarantotto rapiti da Hamas il 7 ottobre del 2023 non torneranno a casa. L’attesa stanca, sfinisce e le famiglie aspettano segni di vita o di morte da due anni

Tel Aviv, dalla nostra inviata. E’ il 732 di ottobre, un mese che continua da due anni. La conta del tempo è stravolta e non finirà fino a quando i quarantotto ostaggi rapiti da Hamas il 7 ottobre del 2023 non torneranno a casa. Sulla lista di chi è in trappola a Gaza, in realtà, i nomi sono quarantanove, anche Hadar Goldin, rapito e ucciso nel 2014 durante l’operazione “Margine di protezione”, è tra gli ostaggi: allora aveva ventitré anni, la famiglia lo aspetta senza speranze da nutrire, consapevole che non vedrà il corpo del ragazzo quando verrà restituito, lo avvolgerà in una bara da consegnare alla terra, in cui sarà contenuta la storia della morte di Hadar, del 7 ottobre, della guerra che Hamas ha imposto a israeliani e palestinesi. Gli altri quarantotto ostaggi sono ormai volti noti a tutti, molti sono ragazzi, le signore li chiamano “figli”, i coetanei “fratelli”. Tra loro ventitré sono vivi e le famiglie sanno cosa aspettare, sono preparate al ritorno di un corpo vivo a cui ridare fiducia o morto a cui poter dare soltanto la dignità della sepoltura. L’attesa stanca, sfinisce e le famiglie degli ostaggi aspettano segni di vita o di morte da due anni. Hanno prima atteso che dalle sabbie dei loro kibbutz uscissero le storie di chi era stato ucciso. Alcuni corpi sono stati portati via dai terroristi, altri, carbonizzati, sono finiti tra le macerie dell’assalto, mescolati tra i resti di una casa irriconoscibile in quei rettangoli di terra che sono i kibbutz nel sud di Israele.

 

Ci sono voluti mesi prima di poter determinare se chi mancava fosse stato rapito o fosse morto, in quei mesi, le famiglie non sapevano se fosse più di conforto venire a sapere che i nomi degli scomparsi fossero stati  inseriti nella lista degli ostaggi nelle mani di Hamas o tra i defunti. Gali e Ziv Berman sono due gemelli, sono stati portati via dal kibbutz Kfar Aza. La famiglia attese per oltre una settimana prima di sapere: “Quando ci hanno detto che erano stati rapiti, eravamo felicissimi”, dice Liran Berman, il fratello maggiore dei due. “E’ una sensazione strana, ma era una speranza”. Gali e Ziv hanno compiuto ventotto anni. Tra le foto che tappezzano le città israeliane, appaiono spesso insieme, abbracciati, inscindibili. Così li immagina Liran, mentre si sostengono nel buio dei tunnel di Gaza, inconsapevoli della loro lunga sopravvivenza. “Sono così vicini”, ripete spesso il fratello, indicando con un gesto un punto non lontano. La Striscia è vicinissima davvero, per arrivare da Tel Aviv a Gaza City ci vorrebbe meno di un’ora e mezza, tanta prossimità rende l’attesa e il non sapere ancora più incomprensibili. E’ tutto a un passo, tutto connesso, eppure Liran non vede il volto di Ziv e Gali da due anni e oggi spera soltanto che l’accordo proposto da Trump funzioni: “Ne sono naufragati già troppi, non si può perdere anche questa possibilità. Prego il presidente americano di fare in modo che questa volta funzioni”. Il volto di Liran ormai lo conoscono tutti, come quelli di Ziv e Gali. Gli ostaggi e le loro famiglie sono diventati noti a un intero paese. Erano tutti cittadini normali, ora sono protagonisti di un incubo da cui non usciranno mai del tutto. Einav Zangueker con i suoi capelli neri e lunghi, il volto consumato, gli occhi cerchiati e la bocca sempre costretta in un’espressione di disperazione, è diventata fra gli esponenti più in vista della famiglia allargata dei parenti degli ostaggi. E’ la madre di Matan Zangueker, rapito al confine: i terroristi lo costrinsero a salire su una motocicletta. Lo trascinarono a Gaza, anche la sua fidanzata venne rapita dal kibbutz Nir Oz e rilasciata durante il primo cessate il fuoco. Gli occhi di Einav sono coperti di angoscia, si vedono a distanza di metri.

 

Quando si presenta agli incontri organizzati per gli ostaggi, gli israeliani la riconoscono, le fanno l’applauso, la chiamano, chi c’è vuole avvicinarsi per abbracciarla, cercano di richiamare la sua attenzione: “Einav, Einav”. Einav si volta e sembra non vederli, sembra non vedere nessuno, sembra che davanti agli occhi abbia soltanto il volto di Matan in un tunnel. Era un’elettrice del primo ministro Benjamin Netanyahu, ora è diventata una oppositrice agguerrita, lo accusa di aver abbandonato il ragazzo per calcoli politici. Sa che Matan è vivo, lo urla ogni volta che parla da un palco. Lo strilla sgolandosi, quasi si aspettasse di sentire arrivare dall’altra parte del confine una vocina stanca, ma abbastanza forte da risponderle: “Sì mamma, sono vivo. Sto tornando”. 

 

La lista dei vivi è basata su una serie di informazioni intrecciate: dati raccolti dall’esercito, racconti di chi è tornato dalla prigionia, filmati pubblicati da Hamas. Alon Ohel è uno degli ultimi ostaggi a essere apparso in un video dei terroristi. Le famiglie spesso faticano a riconoscere gli ostaggi nelle persone sfinite messe davanti alla telecamere a recitare le parole dettate dai rapitori. Quando i genitori di Alon hanno visto il video, hanno detto: quello non è lo sguardo di nostro figlio. I medici hanno confermato che, dal modo in cui il ragazzo guarda, probabilmente non vede più e potrebbe essere il risultato della prigionia, dei maltrattamenti o della granata lanciata dai terroristi nel rifugio in cui si era riparato il 7 ottobre. Era al Supernova festival, come Avinatan Or, Bar Kupirstein, Maksim Herkin, Elkana Bohbot, Yosef Chaim-Ohana, Segev Kalfon, Rom Braslavski, Guy Gilboa-Dalal, Eviatar David, Eitan Mor, Guy Illouz, Inbar Hayman, l’ultima ragazza rimasta a Gaza. Qualcuno era alla festa per divertirsi, qualcuno per lavorare. Ogni kibbutz ha qualcuno per cui lottare: Nir Oz, Be’eri, Kfar Aza, Alumin, Nahal Oz, Nir Yitzhak, tutti aspettano i loro abitanti. Oltre a loro, ci sono i ragazzi che prestavano servizio presso le basi militari o al valico di Erez, il principale ingresso dal nord della Striscia in Israele, in cui ogni giorno passavano i lavoratori palestinesi e oggi è distrutto, con i bossoli dei proiettili ancora sparsi per il terreno. Il sud di Israele è immobile da allora. Per rialzarsi e far rialzare tutto il paese aspetta che i quarantotto siano liberati. 

 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)