
LaPresse
Speciale 7 ottobre
Il soft power perduto
La difesa di Israele, il potere, l’innocenza e la disperazione secondo Leon Wieseltier, “sionista col cuore spezzato”, che vede nel collasso del sostegno americano una vera minaccia per la sopravvivenza dello stato
"Non tutto l’antisemitismo che vediamo oggi è una risposta a Gaza. L’antisemitismo c’era già. Ma Gaza non aiuta”, dice al Foglio l’intellettuale Leon Wieseltier: “Molto antisemitismo si può nascondere dietro le posizioni pro palestinesi. Non tutti i pro Pal sono antisemiti, certo, ma ci sono sovrapposizioni. Chi non lo riconosce è un idiota. Oggi siamo così tanto concentrati sull’antisemitismo di destra che bisogna ricordare alle persone che l’antisemitismo a sinistra è vecchio quanto la sinistra stessa”, e ricorda il genocidio di Stalin. “Quando si tratta di distruggere gli ebrei la destra e la sinistra hanno avuto eque possibilità”.
A due anni dal 7 ottobre il fondatore della rivista Liberties, a lungo a New Republic, si chiede come mai la sinistra abbia scelto con così tanto fervore la causa palestinese. “Certo, non puoi sceglierle tutte, ma perché dai così tanta energia a questa causa invece che a un’altra? Bisogna avere una risposta. Non ho visto la sinistra marciare per la democrazia iraniana, per i bosniaci, per i kosovari, per i siriani, per gli ucraini… non sono mai scesi in piazza per l’Ucraina! L’antisemitismo deve essere tra le varie spiegazioni. Non è tutto, ma è una parte. Non devi essere antisemita per essere antisionista, ma bisogna dire che aiuta”. Secondo Wieseltier poi va tenuto in considerazione anche l’antiamericanismo, “molto profondo nella cultura di sinistra”. “Non manifestano per l’Ucraina perché gli Stati Uniti aiutano l’Ucraina”, spiega, ricordando che oggi si parla ancora con veemenza della guerra in Iraq, come se fosse appena avvenuta. “Ogni azione americana all’estero viene vista come imperialismo. E Israele è il grande amico dell’America”, e quindi difendere Israele vuol dire difendere gli Stati Uniti.
Ma Wieseltier, che ha sempre considerato Israele come casa sua, oggi si sente “nauseato”, ed è, parole sue, “in uno stato di totale svilimento”. Figlio di sopravvissuti all’Olocausto, dice di sentirsi in lutto per entrambi i suoi paesi, di fronte a due politici che detesta come Donald Trump e Benjamin Netanyahu. “Sono un membro della nazione americana e del popolo ebraico. E’ sempre difficile ma bisogna farsi questa domanda: a che livello si deve arrivare perché uno se ne vada dal proprio paese? C’è integrità nell’andarsene, di fronte a certi crimini che vengono commessi, e che portano a una certa alienazione. Penso ai dissidenti anticomunisti che hanno levato le tende quando hanno potuto. Ma la domanda, se non vai via, è: continui o no a sostenere la lotta per un miglioramento del tuo paese? Molti dei dissidenti anticomunisti che sono venuti in occidente hanno continuato a lottare da qui. Io non trovo la defezione molto glamour”. E bisogna ricordare, dice, che “certo non esiste uno stato innocente. Innocenza e potere sono in contraddizione. E che ogni stato ha compiuto azioni violente. Quello che conta è la giustizia della causa e la giustizia dei mezzi”. Ma detto questo “non c’è dubbio che i mezzi a Gaza sono diventati ingiusti molto tempo fa”, dice Wieseltier. “Non ho dubbi: sono stati commessi dei crimini di guerra. Secondo certe definizioni è stato commesso un genocidio, secondo altri no. Il dibattito se è genocidio o no non mi interessa, è una questione semantica-ideologica”.
E così dopo aver sofferto per l’attacco di Hamas del 7 ottobre e poi per la risposta del governo israeliano, ora Wieseltier si definisce “un sionista col cuore spezzato”. Dopo Gaza dice di sentirsi “come se la mia famiglia abbia fatto qualcosa di davvero terribile, dopo aver avuto inizialmente l’obiettivo di fare qualcosa di giusto. Perché dopo quello che è successo il 7 ottobre Israele aveva tutto il diritto di rispondere e provare a indebolire Hamas, ma il governo si è convinto che non solo poteva indebolire Hamas, ma anche distruggerlo. E questo non è un obiettivo militare. Non può essere ottenuto militarmente. E i costi per ottenere questo fine giusto, cioè la sicurezza di Israele, non sono più giusti. E siamo in una situazione storicamente e moralmente spezzata”. Wieseltier non ha mai messo in dubbio il suo sostegno a Israele. “So perché sono un sionista, so perché la fede ebraica deve esistere, so che ha il diritto di esistere nella terra in cui esiste al momento, ma so anche che non sopravvivrà se non si fa la pace coi palestinesi. E tutto questo era vero anche prima del 7 ottobre. Ma deve esserci un serio regolamento dei conti”. E’ appena passata Yom Kippur, la festa più sacra del calendario ebraico, dove si pensa ai propri peccati e si compiono atti di espiazione, e si fa un regolamento dei conti. “Netanyahu non l’ha fatto. E’ un uomo vuoto. Ma gli israeliani e gli ebrei americani dovranno fare questo regolamento dei conti culturali e politici con loro stessi”.
Il 7 ottobre di due anni fa, riconosce il fondatore di Liberties, c’è stato un trauma per tutti gli ebrei, ma bisogna farsi una domanda: è possibile trovare la razionalità dopo il trauma? “Il trauma rappresenta il collasso della ragione. Non ci si può aspettare che una persona traumatizzata risponda razionalmente. D’altra parte niente come l’esperienza del trauma richiede una riposta equilibrata e razionale. E’ l’unica strada per riprendersi. Bisogna dominare quella sensazione che sembra indomabile. Il 7 ottobre c’erano tremila terroristi di Hamas a due passi dal confine, pronti a colpire”, ricorda Wieseltier. “Ma è stato fatto un incredibile errore concettuale, logistico e operativo. Perché il giorno dopo il trauma, devi difenderti in modo razionale e pensare in modo strategico per il futuro. Ci sono stati elementi di vendetta nella risposta israeliana, e questo lo capisco. C’è stata una certa spietatezza, e questo lo capisco. Che Netanyahu non voglia mai entrare in un tribunale per un’inchiesta su cosa è successo il 7 ottobre, lo posso capire. Ma la domanda è: il trauma che ha frenato Israele dal pensare in modo lucido, renderà impossibile risolvere la crisi?”. Secondo Wieseltier il governo ha una responsabilità, perché “l’ideologia ha superato la strategia empirica”, e “volevano” che Hamas fosse già stato pacificato, e che i cancelloni hi-tech al confine con Gaza fossero senza difetti, e che il vero problema fosse la Cisgiordania. “Gaza non ha valore ideologico, né per Netanyahu né per il movimento dei coloni né per l’estrema destra israeliana. Per loro tutto gira intorno alla Cisgiordania. E il 7 ottobre non c’erano soldati al confine con Gaza perché erano tutti nella cazzo di Cisgiordania. E questo è un perfetto esempio di una strategia militare ideologica. E’ pericoloso mescolare le due cose”, spiega Wieseltier.
Il New York Times ha appena pubblicato un sondaggio che vede ribaltato l’appoggio dei cittadini americani per Israele rispetto a com’era il 7 ottobre. Israele ha perso il suo soft power. “Questa è l’altra crisi, e non solo per gli israeliani, ma per gli ebrei americani”, dice l’intellettuale ricordando che uno dei principali pilastri della sicurezza israeliana sono gli Stati Uniti. “Netanyahu ha fatto parecchi danni al sostegno statunitense per Israele, sapendo benissimo che già prima del 7 ottobre c’erano cambi generazionali in corso nella società americana e che gli americani ebrei non erano più cresciuti con quella nostra idea di sionismo, come un tempo”. Wieseltier vede nel collasso del sostegno americano per Israele una vera minaccia per la sopravvivenza dello stato. “Molti israeliani ed ebrei americani hanno disdegnato Joe Biden. Ma in due anni l’ex presidente ha dato a Israele 16 miliardi dollari oltre ai 3,8 miliardi già decisi. Senza quel supporto cosa succede?”.
Infatti molti democratici negli Stati Uniti, sull’onda dei campus e dei giovani candidati socialisti che hanno successo alle primarie, iniziano ad allontanarsi da Israele. “La persona che rappresenta il cambiamento è Zohran Mamdani”, dice Wieseltier, parlando del candidato sindaco di sinistra a New York che ha battuto la vecchia guardia del Partito democratico. “Non penso che lui sia antisemita. Ma sono certo che a casa sua e nei suoi studi sia stato cresciuto negli standard di analisi post coloniale secondo cui Israele è uno stato di coloni e i palestinesi sono le più grandi vittime del mondo. E non è l’unico della sua generazione, sono cose che si insegnano da anni nelle università”. Anche perché la generazione che era in vita quando Israele è stato creato, nel 1948, sta piano piano scomparendo. Wieseltier, che è nato quattro anni dopo, ricorda che Israele per la sua generazione “non sarà mai un fatto naturale del mondo, è sempre stato minacciato e ci sarà sempre qualcosa di miracoloso nella sua creazione. Per noi era uno stato molto fragile, nuovo, vulnerabile. Ma per la generazione successiva l’esistenza di Israele come terra degli ebrei è un fatto naturale del mondo”. Oggi il paradigma cambia ancora di più, e il rischio è perdere il sostegno del resto dell’occidente. “Da ebreo mi preoccupa moltissimo che i bambini ebrei americani siano cresciuti con le immagini di Gaza. Da giovane sono stato cresciuto con le immagini della Guerra dei Sei giorni, e di Moshe Dayan e di Suez, crescendo avevo intorno immagini eroiche di un Israele in pericolo. Quando si è persa quest’immagine?”: secondo Wieseltier ogni ebreo dovrebbe porsi questa domanda, e non solo provare a spiegare il cambio di paradigma ai gentili.
Ma Wieseltier, nonostante tutto, resta ottimista. O comunque ci prova. Dice che ogni mattina si sveglia e cerca dei segnali di speranza. Israele deve decidere cosa fare, e poi curarsi le ferite. La soluzione a due stati, dice, non è solo quella “più morale”, fin dal 1947, ma è l’unica possibile per l’esistenza stessa di Israele, anche se “il trauma del 7 ottobre e della guerra a Gaza hanno fatto tornare parecchio indietro la situazione”. Se non succede, anche con una qualche forma di pacificazione, c’è il rischio che le cose vadano avanti per trenta o cent’anni, “come in Irlanda”, e se si mantiene lo status quo “la sicurezza di Israele è davvero in pericolo, perché adesso i palestinesi non hanno niente da perdere. E non c’è niente di peggio che avere un nemico che non ha niente da perdere. La disperazione è pericolosa”. Un segnale di speranza, per Wieseltier, è che alle ultime elezioni si è arrivati al pareggio: 49 a 49. “La destra con quella sua idea messianica contorta non ha la maggioranza”, dice. Ma, c’è un problema con l’opposizione. “Il mio dovere è strigliare la mia comunità, gli ebrei in Israele e gli ebrei in America, il blocco sionista anti Netanyahu, e usare la mia scrittura per aprire discussioni. Ammesso che le discussioni abbiano ancora senso. Qual è il punto di una società aperta se nessuno cambia il proprio punto di vista?”, si chiede l’autore del romanzo “Kaddish”. Il grande sconforto e la grande delusione vengono dal fatto che non ci sia una vera opposizione, in nessuno dei suoi due amati paesi, e Wieseltier ricorda quando lui tre anni fa andava in piazza a Tel Aviv a protestare contro le riforme giudiziarie di Netanyahu. “Cos’è la democrazia senza opposizione?”.


lo speciale del foglio
Due anni dopo il 7 ottobre: il ricordo, le rimozioni, i drammi di oggi e di ieri
