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la spiegazione

“From the river to the sea”. Quando uno slogan cancella la realtà

Daniela Santus

La Palestina prima e dopo il 1948. L’antisemitismo che non è morto, si è solo travestito con parole che suonano progressiste. Lezione di geografia a chi nei cortei scandisce lo slogan "dal fiume al mare"

Cari studenti, lasciate che vi dedichi una lezione di geografia. Quella vera: la disciplina che studia i rapporti tra spazi, popoli, storie. Perché anche voi, quando scandite “from the river to the sea”, state facendo un’operazione geografica. Permettetemi di spiegarvi quale.


1) Quale fiume, quale mare? – “Dal fiume al mare”. Ma quanti di voi saprebbero tracciare su una carta muta il confine che invocate? Il fiume è il Giordano: 251 chilometri che terminano nel Mar Morto, 430 metri sotto il livello del mare. Non sfocia: evapora. Un fiume che muore, non che genera. Il mare è il Mediterraneo orientale: 273 chilometri di costa. Tra questi due punti ci sono 27.000 chilometri quadrati. Come la Sicilia. In questo spazio vivono 14 milioni di persone: 7 milioni di ebrei israeliani, 2 milioni di arabi israeliani, 3 milioni di palestinesi in Cisgiordania, 2 milioni a Gaza. Quando ripetete “from the river to the sea”, di tutti questi esseri umani, chi rimane e chi scompare?

  

2) I nomi non mentono  – La toponomastica conserva memoria. Tel Aviv, fondata nel 1909. Gerusalemme, citata nella Bibbia 667 volte, abitata da tremila anni. Ramallah, Nablus, Hebron. Ogni toponimo racconta una presenza: ebrei che sono stati lì – con espulsioni e ritorni – per millenni. Palestinesi che ci sono da secoli. Quando dite “dal fiume al mare”, quale presenza intendete cancellare? La geografia non ammette ambiguità: in uno spazio dato, o convivono comunità diverse, o una elimina l’altra.

 
3) Prima del 1948 – Molti credono che nel 1948 Israele abbia cancellato uno stato palestinese. Falso. Nel 1947 esisteva il Mandato britannico sulla Palestina, entità amministrativa nata nel 1920 con l’obiettivo, tra l’altro, di facilitare la costituzione di un focolare nazionale ebraico. Nel 1921 la Gran Bretagna separò la Transgiordania dal Mandato, creandovi un emirato autonomo che divenne indipendente nel 1946 come Regno di Giordania. Prima del Mandato? Quattro secoli di dominio ottomano. Prima ancora? Tanti dominatori: mamelucchi, crociati, bizantini, romani, e sempre una comunità ebraica che restava attaccata alla terra pur tra mille difficoltà. Risalendo ancora: i regni ebraici di Giuda e Israele. La parola “Palestina” fu imposta dall’imperatore Adriano nel 135 d.C. per cancellare ogni riferimento alla Giudea. Un’operazione geografico-ideologica: cambiare il nome per cancellare la memoria. L’ironia è che oggi chi invoca la “Palestina storica” usa un toponimo inventato per negare la presenza ebraica. Ad ogni modo, nel 1947 l’Onu propose di dividere ciò che restava del territorio mandatario in due stati: uno ebraico e uno arabo. Gli ebrei accettarono. Gli arabi rifiutarono e invasero il neonato Israele.

  
4) Quale stato negate? Israele è l’unico paese dove gli ebrei sono maggioranza, l’unico stato ebraico. Al tempo stesso, la minoranza araba (21 per. cento della popolazione) può votare ed eleggere propri rappresentanti in parlamento. Circa metà dei 15 milioni di ebrei esistenti al mondo vive in Israele. Facciamo un confronto: i musulmani sono circa 2 miliardi  e gli stati musulmani, ad oggi, 57. La vostra idea di giustizia prevede l’eliminazione dell’unico paese dove un popolo perseguitato per due millenni ha ottenuto la sua autodeterminazione?  Già, perché non potete avere uno stato palestinese “dal fiume al mare” senza eliminare Israele. Non c’è spazio per due stati in quella formula. E’, letteralmente, un’ideologia di cancellazione.

  
5) Chi ha inventato lo slogan? - Lo slogan nasce negli anni Sessanta, coniato dall’Olp e poi adottato da Hamas. La Carta di Hamas del 1988 dichiarava: “La Palestina è terra islamica per tutte le generazioni fino al Giorno del Giudizio”. L’articolo 7 citava: “Il Giorno del Giudizio non arriverà finché i musulmani non combatteranno gli ebrei e li uccideranno”. Il documento del 2017 (articolo 20) ribadisce: “Hamas rifiuta qualsiasi alternativa alla completa liberazione della Palestina, dal fiume al mare”. Quando voi, studenti occidentali progressisti, gridate questo slogan, state ripetendo parole di un’organizzazione che chiama allo sterminio degli ebrei. Lo ritenete davvero plausibile? Pensate che sia corretto ripercorrere – anche se forse inconsapevolmente – la deriva del 1938?

  
6) L’antisemitismo travestito – “Ma noi critichiamo Israele, non gli ebrei!” Bene. Allora perché non chiedete che la Turchia “dal Bosforo all’Eufrate” sia data ai curdi? Perché non manifestate per “decolonizzare” il Marocco e restituirlo ai Berberi? L’unico paese la cui esistenza viene negata è Israele. Rifletteteci: l’antisemitismo non è morto, si è solo travestito. Oggi usa slogan che suonano progressisti: “liberazione”, “decolonizzazione”. Parole nobili per nascondere un’antica ossessione: un mondo senza ebrei o, come dite voi, senza sionisti. Il test è semplice: se il vostro antisionismo prevede la scomparsa dell’unico paese dove gli ebrei hanno ottenuto la loro autodeterminazione dopo secoli di persecuzioni, culminate nella Shoah, allora non è altro che antisemitismo aggiornato. Perché l’antisionismo è proprio questo: la volontà di negare agli ebrei il diritto di esistere in un loro stato. Vedete, ogni parola traccia un confine. “Liberazione”, “resistenza”, “occupazione”, “colono”, “naqba”: termini che cambiano significato a seconda di chi li pronuncia e da dove li guarda. Ogni termine ha il suo corrispettivo di dolore e di verità. Ma la geografia non ammette il privilegio di una sola prospettiva. E’ fatta di pluralità, di carte geografiche sovrapposte. Quando usate una parola, state scegliendo una mappa. E se la parola cancella un popolo, allora non è più linguaggio: è cartografia dell’odio. 

 
Cari studenti, non vi sto dicendo che la geografia risolve i conflitti, ma vi mostra le proporzioni. Vi mostra che in quello spazio ristretto tra fiume e mare vivono due popoli, entrambi con storie, traumi, diritti e doveri. La soluzione non può essere la cancellazione di uno dei due. Deve essere – può essere – la costruzione di due stati, due dignità, due sovranità. “Dal fiume al mare” è una formula a somma zero. Riduce una tragedia complessa a geometria dell’esclusione. E’ l’opposto della convivenza: vi trasforma e vi acceca. Quando scandite uno slogan, qualsiasi slogan, chiedetevi: conosco la storia di quelle parole? So dove portano? So cosa significano per chi le ha vissute sulla propria pelle? L’ignoranza non è mai innocente, neppure quella geografica. Quando non sapete dove sono i luoghi di cui parlate, non vedete le persone che ci abitano. E quando non vedete le persone, diventa facile cancellarle. Prima dalle mappe, poi dalla realtà. Le manifestazioni sono un diritto, certo. Ma la conoscenza è un dovere, anche da parte di noi docenti. Soprattutto all’università, dove gli studenti dovrebbero poter imparare a distinguere la complessità dalla semplificazione, la giustizia dalla vendetta, la pace dalla cancellazione dell’altro.

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