Il fattore Trump tra i manifestanti israeliani che aspettano l'accordo

Micol Flammini

C'è un'ossessione per i presidenti americani già iniziata con Biden, ma l'attuale inquilino della Casa Bianca in Israele è una garanzia maggiore. Non tanto per il suo rapporto con Netanyahu, quanto per le relazioni con i paesi arabi. La linea con Hamas prima dei negoziati

Gerusalemme, dalla nostra inviata. L’attesa dell’inizio dei negoziati fra Israele e Hamas per stabilire i dettagli della liberazione degli ostaggi e del ritiro di Tsahal dalla Striscia di Gaza, si conta ora per ora. Ogni minuto pesa. Ogni giorno irrigidisce il macigno fatto di dolore, rabbia, sfiducia, speranza delle famiglie dei quarantotto ostaggi che rimangono nelle mani dei terroristi. L’espressione  “due anni” che scandisce ogni manifestazione da Tel Aviv a Gerusalemme non è soltanto la misura del tempo trascorso dal 7 ottobre a oggi, ma anche il metro con cui gli israeliani stilano l’elenco delle paure e delle colpe. Molti accusano il primo ministro Benjamin Netanyahu di distacco malevolo nei confronti di una tragedia nazionale, altri lo additano come responsabile di un accordo rimandato troppe volte. Ma Netanyahu non è il protagonista, il premier israeliano è una presenza costante con cui gli israeliani faranno i conti nelle urne durante le elezioni che si terranno al massimo a ottobre del prossimo anno. Per chi è in piazza, Netanyahu conta poco o nulla. Da Tel Aviv a Gerusalemme tutti si appellano a Donald Trump. Il presidente americano è invocato come il guardiano dell’accordo. La sua faccia spunta sui cartelloni pubblicitari. Durante le manifestazioni, chi protesta indossa una maschera con i suoi lineamenti. Una ragazza va in giro con il volto coperto da un enorme faccione di plastica e biondissimo e reggendo in mano un  palloncino scintillante a forma di cuore. Con forza e decisione in tanti sventolano le bandiere americane. Trump qui è tutto quello che non rappresenta nel resto del mondo: è stabilità, è ritorno alla normalità.

“End this fuc*!ng war” (Metti fine a questa fottuta guerra) è una frase che Trump ha detto a Netanyahu e oggi è uno degli slogan delle proteste, inciso in bianco su sfondo rosso come richiamo alla scritta “Make America great again”. Questa ossessione è spontanea ma contorta, chi non apprezza Netanyahu è difficile che possa avere stima per le politiche di Trump. La fiducia per il capo della Casa Bianca trascende lo stesso Trump, è fiducia negli Stati Uniti, nell’alleato irrinunciabile.  Prima di Trump c’era Biden, ritratto per le strade con lo scudo di Capitan America, invocato nei cartelli delle manifestazioni come il salvatore necessario, l’unico in grado di riportare a casa gli ostaggi. “Una cosa è certa – dice uno dei manifestanti a Gerusalemme davanti casa i Benjamin Netanyahu –  se il nostro primo ministro non ascoltava Biden, con Trump si comporta in maniera diversa”. La piazza è impulsiva, travolge e si lascia travolgere, ma sa bene che la differenza tra Trump e Biden non la fa soltanto la disponibilità di Netanyahu ad ascoltare un presidente più di un altro, in base all’affinità politica. La fa anche il rapporto con l’attuale Amministrazione americana dei paesi arabi che hanno deciso di aderire al piano per la liberazione degli ostaggi e il cessate il fuoco nella Striscia di Gaza. La fa il rapporto fra Trump e l’Arabia saudita. Fra Trump e il Qatar. Finora è questa la più grande assicurazione che il presidente americano porta in dote all’accordo fra Israele e Hamas. “Il piano non è israeliano o americano – dice Yossi Kuperwasser, ex direttore generale del ministero degli Affari strategici, oggi a capo del Jerusalem institute for Strategy and Security  – ma è sostenuto dai paesi arabi che hanno pubblicamente dato il loro sostegno. E’ questa la forza”. E inoltre, “è nell’interesse americano che il piano si realizzi”. La stortura continua a essere che qualsiasi successo del piano dipende dalla risposta affermativa di Hamas che, anche se indebolito e ridotto, ha ancora capacità e forza negoziale. Da oggi il gruppo parteciperà ai negoziati, ha mandato Khalil al Hayya, sfuggito all’attentato israeliano a Doha, a definire quali dettagli vanno bene e quali no per i terroristi che non vogliono perdere il loro potere nella Striscia. “C’è da aspettarsi che Hamas accetterà la prima fase: liberazione degli ostaggi e ritiro dei soldati israeliani. Ma non vorrà passare alla seconda, che riguarda l’amministrazione della Striscia”, dice l’ex capo del Consiglio di sicurezza nazionale, il generale Giora Eiland, per nulla convinto che la guerra possa finire. “Quello che si sottovaluta è il ruolo di Hamas dentro la Striscia. Non è al Qaida, è ben radicato nella vita dei palestinesi. Israele può accettare che rimanga una presenza in Gaza,  non al potere, solo perché ha delle priorità: probabilmente inizierà una nuova guerra con l’Iran al massimo fra tre anni”. L’inaccettabile, la sopravvivenza di Hamas,  sta diventando accettabile, Trump in questo ha avuto un ruolo e per rendere le sue posizioni chiare ieri ha minacciato il gruppo di “annientamento completo” se cercherà di aggrapparsi alla gestione della Striscia. Gli israeliani che protestano e chiedono la liberazione degli ostaggi vogliono mettere fine alla guerra, “adesso” (akhshav, come gridano, sgolandosi, nelle proteste da due anni). Hanno messo in conto che la lista dei pericoli a cui pensare dopo hanno appena iniziato a stilarla. 

Di più su questi argomenti:
  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)