
Il piano per Gaza
Trump concede a Hamas “l'ultima possibilità”: c'è tempo fino a domenica sera per accettare l'accordo
Sono settecentoventinove giorni che le famiglie degli ostaggi aspettano il ritorno dei loro cari. Il piano americano promette di riportarli in Israele in 72 ore, ma i terroristi prendono tempo. Se non arriverà un accordo, scatterà l’offensiva finale. Un “sì, ma” non è più ammesso
Tel Aviv, dalla nostra inviata. L’attesa delle famiglie degli ostaggi per una risposta di Hamas al piano di pace proposto dal presidente americano Donald Trump è dolorosa e pungente. Sono quasi due anni, settecentoventinove giorni, che madri, padri, sorelle, fratelli e figli aspettano l’accordo definitivo. Dentro la Striscia, nelle mani dei terroristi rimangono quarantotto rapiti, circa venti sono vivi. Il piano di Trump prevede che vengano tutti riportati in Israele in settantadue ore. Da lunedì, quando Trump con il premier israeliano Benjamin Netanyahu al suo fianco e il sostegno dei leader del mondo arabo alle spalle ha annunciato i punti del piano, tutti in Israele si aspettano che Hamas risponda: “Sì, ma”. Non un “no”, che insospettirebbe il presidente americano, ma un finto “sì” per continuare a negoziare, trovare il varco in cui spingere Israele in un isolamento ancora più profondo. Venerdì il presidente americano ha scritto sul suo social Truth un messaggio ai terroristi, ha dato loro una scadenza, “l’ultima possibilità”.
Se entro le 18, ora di Washington, non sarà raggiunto un accordo, allora “l’inferno, come nessuno lo ha mai visto prima, si scatenerà su Hamas”. Nei punti presentati da Trump, c’è il riferimento chiaro al sostegno americano a Israele per continuare la guerra ed eliminare il gruppo. I leader del mondo arabo hanno accettato che questo ultimo sforzo per l’annientamento di Hamas avvenga. “Chiedo a tutti i palestinesi innocenti di lasciare immediatamente questa zona potenzialmente mortale per raggiungere zone più sicure di Gaza. Tutti saranno ben accuditi da coloro che aspettano soltanto di aiutare”. Trump scrive che venticinquemila miliziani sono già stati eliminati, agli altri offre la possibilità di salvarsi, accettando l’accordo. Hamas è l’ombra di quell’esercito che è stato capace di organizzare e portare a termine il 7 ottobre, ma ancora esiste, lancia razzi contro Israele, attacca i soldati nella Striscia, amministra la vita dei palestinesi sfiniti e detiene gli ostaggi: in una delle ultime dichiarazioni, un combattente delle brigate al Qassam di Hamas ha detto che per fermare l’avanzata israeliana dentro alla città di Gaza, gli ostaggi sarebbero stati spostati per fare da scudo all’organizzazione. L’ultimatum di Trump era necessario, Hamas è convinto di poter gestire il tempo, di poterlo usare contro Israele: non ha un’opinione pubblica da tenere a bada, non ha la pressione internazionale che la confronta. Finora è rimasto in attesa che fossero le contestazioni a divorare Israele dall’interno e lo stigma internazionale a soffocarlo dall’esterno. Il piano di Trump, per la prima volta, rende l’eliminazione di Hamas una questione non soltanto israeliana: “La maggior parte dei restanti (terroristi) è circondata e intrappolata militarmente, in attesa soltanto del mio ‘VAI’, per estinguere rapidamente le loro vite”, ha scritto il presidente americano.
Negli ultimi giorni, vari funzionari di Hamas hanno rilasciato dichiarazioni a diversi media. Alla Bbc avevano detto che il gruppo non avrebbe accettato il piano, al Times of Israel che lo avrebbe fatto con riserva. Il quotidiano pubblicato a Londra in lingua araba Asharq al Awsat riportava invece le indiscrezioni di chi intendeva proporre modifiche in alcuni dei punti sostanziali, come il disarmo. “La guerra è un principio radicato nell’identità di Hamas, ed è condiviso da tutti, dalla Striscia alla Cisgiordania, fino ai leader che vivono all’estero”, dice Michael Milshtein, uno dei più grandi conoscitori del gruppo. Non c’è nessuno dei miliziani e dei loro capi che voglia cedere. Dentro alla Striscia alcuni civili hanno formato piccole proteste per chiedere di accettare il piano. In Israele, l’ultimatum di Trump è stato un sostegno e un peso allo stesso tempo: gli israeliani non sono soli, ma l’ultimo attacco potrebbe essere una condanna per gli ostaggi. Quando domenica a Washington saranno le 18, in Israele e nella Striscia sarà l’una di notte, già lunedì. Basterebbe un “sì” di Hamas al piano e tutto si fermerebbe. Nessuno crede in quel “sì”, né in Israele né a Gaza.
Dopo le parole di Trump, Tel Aviv si è trasformata in un’immensa sala d’attesa, ognuno aspetta dove può, dove è meglio. Prima dello Shabbat alcuni cittadini sono andati a pregare guardando il tramonto. Un gruppo di pensionati ha intonato una canzone per chiedere il ritorno degli ostaggi, riadattando il testo di una canzone chassidica. “Non sono religioso”, dice uno dei cantanti, che di fatto aveva appena finito di pregare.