Nafta (russa) per Taiwan

Giulia Pompili

L’isola è diventata il principale importatore di combustibile dalla Russia. La zappa sui piedi

Parlando per la prima volta al Forum sulla Sicurezza di Varsavia, ieri il ministro degli Esteri taiwanese Lin Chia-lung ha chiesto ai leader europei di investire di più nel paese e di approfondire i legami economici con l’isola, perché la sicurezza internazionale passa anche da partnership che si basano sulla fiducia. Solo che nelle stesse ore, il Centre for Research on Energy and Clean Air (Crea) di Helsinki pubblicava un rapporto sorprendente: nel 2025 Taiwan è diventato il maggior importatore al mondo di nafta dalla Russia.

 

 

Dopo l’invasione su larga scala dell’Ucraina, il governo di Taipei ha aderito alle sanzioni economiche contro Mosca, e ha in gran parte ridotto la dipendenza dal carbone russo. Ma  non è riuscito a emanciparsi dalla necessità di importare l’idrocarburo liquido che è fondamentale per produrre i prodotti chimici impiegati nella tecnologia e nella manifattura di semiconduttori. Secondo il rapporto, la compagnia elettrica statale Taipower e la Taiwan Cement Corporation, che era il più grande acquirente privato di carbone russo nel 2023, sono entrambe riuscite a bloccare gli acquisti di carbone russo già nella seconda metà del 2024. E pure la società statale taiwanese Chinese Petroleum Corporation ha fermato le forniture di nafta russa lo scorso anno. Il problema è quasi interamente causato dalla Formosa Petrochemical Corporation (Fpcc), che prima dell’invasione importava il 9 per cento di nafta dalla Russia e dopo la guerra le ha aumentate fino ad arrivare al 90 per cento nei primi sei mesi del 2025, trasformandosi nel singolo maggiore acquirente conosciuto di combustibile russo nel mondo. Dal febbraio del 2022 a oggi le importazioni taiwanesi di combustibili fossili dalla Russia hanno superato gli 11,2 miliardi di dollari – secondo gli analisti si tratta di una cifra 220 volte superiore ai 50 milioni di dollari in aiuti bilaterali totali che Taiwan ha fornito all’Ucraina nello stesso periodo.

 


Ma Taiwan è dipendente dalle importazioni nel suo fabbisogno energetico, e specialmente per produrre tecnologie sofisticate, cioè il settore più strategico per l’isola che la Repubblica popolare  rivendica come proprio territorio anche se il Partito comunista non l’ha mai governata, e che vive da anni sotto ricatto di Pechino che cerca di isolarla diplomaticamente minacciando di continuo un’invasione militare. Non è un caso se ieri, davanti a una platea di leader europei in un viaggio insolitamente annunciato e pubblicizzato del ministro degli Esteri taiwanese – la Polonia, come la Repubblica ceca, da tempo hanno iniziato ad accogliere rappresentanti istituzionali di Taiwan per rompere il ricatto di Pechino e normalizzare progressivamente le relazioni – Lin abbia parlato proprio delle opportunità economiche nelle collaborazioni tecnologiche. Ma la notizia della dipendenza di Taipei, e di alcune sue industrie strategiche da certi combustibili russi rischia di essere un problema.  Alcuni analisti ieri facevano notare come la Repubblica popolare cinese potrebbe influenzare Mosca per chiudere i rubinetti verso Taiwan e riassorbire i mancati profitti, dando di fatto uno choc alla produzione di semiconduttori taiwanesi.

 

Ma il problema non riguarda solo i metodi ibridi con cui la Cina può strozzare l’economia taiwanese. Perché il governo di Taipei si trova in una fase negoziale molto delicata anche con l’Amministrazione americana di Donald Trump. Il capo della Casa Bianca ha già dato segnali chiari di voler mettere sotto pressione Mosca limitando le sue capacità di esportazione energetica, mettendo dazi punitivi contro l’India per aver comprato petrolio russo e spingendo l’Europa ad accelerare il decoupling energetico dalla Russia. In più non solo la Formosa Petrochemical collabora direttamente con Novatek, la più grande azienda produttrice di gas liquefatto in Russia e da due anni sotto sanzioni americane, ma secondo il rapporto l’88 per cento delle importazioni di combustibile russo sarebbe stato trasportato a Taiwan su navi possedute o assicurate da paesi della coalizione del price cap, ma i prezzi d’acquisto mostrerebbero una violazione della politica sui tetti. Dopo il quinto round di negoziati  con l’America, il governo di Taipei si trova ancora senza un accordo e il rischio è che questa tensione si trasformi in un’opportunità per Pechino. Ieri il segretario al Commercio americano Howard Lutnick ha detto che sta spingendo affinché Taiwan produca metà dei chip destinati agli Stati Uniti  sul territorio statunitense. Ma per l’isola la produzione dei microchip è troppo importante per essere delocalizzata, e l’esecutivo di Taipei è stato costretto a una smentita. 

 


Il governo taiwanese deve lavorare velocemente su entrambi i fronti. Ieri diversi osservatori facevano notare come probabilmente Taipei, con la Russia, abbia fatto un calcolo piuttosto cinico, di approvvigionamento e scorte (utili non solo all’industria tecnologica ma anche a quella della Difesa) prima di un abbandono definitivo del mercato energetico russo: anche perché, come svelato in settimana dal think tank inglese Rusi, è proprio la Russia che sta insegnando alla Cina le tattiche militari operative per una eventuale invasione di Taiwan. 
 

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.