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Avanti tutta, flotilleros
Caso politico e reality dell’impegno civile, mal di mare e avarie, pacifisti radicali e simpatizzanti di Hamas. Nel Mediterraneo va in scena il grande show della solidarietà ai tempi di TikTok. Non dimenticate la kefiah
La sigla, anzitutto. Non un banale “aiuti per Gaza”, non un anonimo “missione di Pace”, ma un instagrammabile e battagliero “Global Sumud Flotilla”, con quella parola araba tra l’inglese e lo spagnolo che fa subito Edward Said ma in italiano suona come un gruppo-spalla al concertone del primo maggio “…e ora la Flottiglia globale della Resistenza paziente!”. Le barche a vela hanno invece nomi da playlist di world music o capsule di caffè gourmet: “Ghea”, “Selvaggia”, “Zefiro”, “Otaria”, “Estrella”. Sono alcune delle imbarcazioni salpate da Genova, tutte di media e piccola dimensione, che avrete senz’altro visto in quelle foto che giravano sui social: compatte, schierate una di fianco all’altro, come nelle scene epiche di “Dunkirk” di Christopher Nolan, anche se Churchill di certo non è nel pantheon dei nostri flotilleros. Guardo la Flotilla e penso: è così che dovrebbe essere il mondo. Un’idea bella, una speranza, un senso di fratellanza per l’umanità, eccetera. Oppure, guardo la Flotilla e penso: sembra un “Pechino-Express” umanitario, una passerella per politici in cerca di voti, e quanti degli attivisti a bordo avranno brindato al 7 ottobre? E chi paga? Solo donazioni caritatevoli?
Di sicuro c’è più plot in questa saga avventurosa che in tre stagioni di cinema italiano. Capita di tutto: false partenze, guasti, avarie, temporali biblici, attivisti che restano a Barcellona con lo spritz in mano, il convoglio malese forse perso nel nulla come in una puntata di “X-Files”. E poi droni misteriosi, spray al peperoncino, bombe sonore con gli Abba, come una spietata “cura Ludovico” versione Disco. E scissioni interne, divisioni, come tante piccole correnti di un Pd globale: Greta Thunberg che lascia il direttivo, skipper tunisini che lamentano “troppa frociaggine” a bordo e scaricano gli attivisti Lgbtq+. Neanche il mare che tutto mescola e rimescola riesce a unire cause opposte: “La Palestina è innanzitutto la causa dei musulmani e non si può dissociarla dalla sua dimensione spirituale e religiosa”, scrive il conduttore televisivo tunisino Samir Elwafi in un post: “Perché ci mescolate a attivisti sospetti che servono altre agende che non ci riguardano e non hanno niente a che vedere con Gaza, come l’Lgbtismo?!”. E’ il naufragio dell’intersezionalità. Se ne ricorderanno i Queer For Gaza e i filosofi dei pronomi plurali? Macché.
Attivisti che restano a Barcellona con lo spritz in mano, il convoglio malese forse perduto, e scissioni come tante piccole correnti di un Pd globale
La Flotilla è un caso politico e un reality dell’impegno civile. Una performance marinara e una terapia di gruppo della sinistra globale. Nel vasto palcoscenico del Mediterraneo va in scena l’alleanza più improbabile: pacifisti radicali navigano insieme a simpatizzanti di Hamas, ambientalisti del Nord Europa fianco a fianco con paesi che bruciano petrolio, femministe militanti solidarizzano con società arcaiche e un filo patriarcali, e poi anche eurodeputati, parlamentari, ex-sindaci di Barcellona, influencer, tiktoker in cerca di follower, videoblogger, inviati di Fanpage, del Manifesto, di Al Jazeera. Ognuno vede quello che vuole vedere. Ognuno proietta la propria Gaza. Il Mediterraneo diventa un posto dove venire a purificarsi politicamente, tra spruzzi di mare, attacchi con i droni, lotta al sionismo coloniale. La sfida a Israele, lo sconfinamento in acque territoriali, l’atto performativo in sé, tutto questo è più importante dei viveri, delle medicine, degli aiuti – altrimenti le soluzioni non mancavano. Ma vuoi mettere forzare il blocco navale! Vuoi mettere farsi cacciare via a cannonate! (e poi farsi venire a salvare dalla nostra marina). E’ l’insurrezione come weekend lungo, la barricata come esperienza immersiva. Se la Flotilla non arriva a Gaza sfasciamo tutto. Altro sciopero selvaggio. Altra scorribanda nelle stazioni. Ma quanto languore per l’impresa del momento, forse del secolo, anche se tra due mesi ce la saremo dimenticata.
La sfida a Israele, l’atto performativo in sé, tutto questo è più importante dei viveri, delle medicine, degli aiuti – altrimenti le soluzioni non mancavano
“Vorrei tanto essere a bordo con loro”, confessa Oscar Farinetti presentando il suo primo romanzo nell’ennesimo podcast: “Amo scrivere e ammiro la Flotilla”, spiega l’inventore di Eataly, cogliendo subito il coté letterario dell’impresa, l’eco dei racconti di Conrad, Hemingway, Jack London, di “Les Travailleurs de la mer” di Hugo, con Israele nei panni della perfida e gigantesca piovra dagli “otto tentacoli che si rovesciano dal dentro al fuori come dita di guanti”. Ma qui anche sottotrame alla Graham Greene: oscuri finanziatori, missioni sotto copertura, infiltrati, doppi giochi, attacchi in acque internazionali: “All Eyes on Flotilla!”. “La scelta delle barche a vele di piccole dimensioni”, dicono gli attivisti, “non è stata casuale: serve per apparire meno aggressivi”. Ma a differenza di yacht, cargo, motoscafi e piroscafi, la vela ha anche tutto un suo fascino romantico di lotta solitaria e politica. Noialtri che abbiamo una certa età ricordiamo Gian Maria Volonté col suo Camper & Nicholsons di 35 piedi che porta Oreste Scalzone latitante in Corsica che da lì raggiungerà poi la Parigi di Mitterrand. O anche Mario Moretti, capo delle Br, che nel ‘79 trasferisce un carico d’armi dal Libano al Lido di Venezia a bordo del Papago, un Koala 39 piedi costruito da Nordcantieri (lo skipper era uno psichiatra marchigiano di Ancona, esperto velista e rivoluzionario comunista). Altri flotilleros. Altri tempi.
Sinonimo di fuga dalla civiltà e dalle sue costrizioni, l’avventura nei mari diventa invece con la Sumud Flotilla il più social degli eventi: programmato, schedulato, ottimizzato per i diversi fusi orari e tradotto in quattro lingue. “Forensic Architecture” – nome che già suona come uno studio legale specializzato in divorzi milionari – ha progettato per la Flotilla un sistema di tracciamento che permette a chiunque di seguire questa epopea marittima dal comfort del proprio divano. “Ogni movimento documentato”, “ogni voce può raccontare la propria versione”: è l’utopia dell’iperconnessione umanitaria. E’ lo “yachtivism” (lo chiameremo così) l’attivismo da crociera che garantisce massimo impegno civile anche se ti fermi due notti in una caletta a Mykonos. Un turismo della causa con attivisti-performer che possono permettersi settimane in mare, con il backup mediatico, le interviste via satellite. E io trovo davvero magnifico che tutto questo sia reso possibile da una connessione Starlink, la rete dell’ex-nazista Elon Musk, che tiene insieme tutto il sistema di comunicazione della Flotilla (del resto, anche le Tesla sono ormai tornate di moda).
“Ogni movimento documentato”, “ogni voce può raccontare la propria versione”: utopia dell’iperconnessione umanitaria
Da settimane seguo i video dei tanti attivisti-tiktoker a bordo. Sono pazzo di una che fa i tutorial su come lavare la kefiah in barca, strofinandola delicatamente, mostrando la giusta ripiegatura da usare per farla asciugare per bene al sole. Non avevo mai visto così tante variazioni cromatiche sul motivo della kefiah: rosse, blu, amaranto, giallo senape, ambra. La Flotilla è anche una fashion week dell’intifada galleggiante: kefiah sfoggiata come bandana oppure messa sopra il naso come i terroristi, attorcigliata alla vita come una cintura o indossata come scialle, à la Greta Thunberg. Più d’ordinanza la diretta social dei parlamentari-flotilleros: giubbotto di salvataggio, fischietto, aria spaurita. Perché questa Flotilla è anche un’epopea di contrattempi, improvvisazione, dilettantismo eroico. Si torna in porto con venti non irresistibili (per marinai esperti), si rompono motori, ci si perde. Le prime notti di navigazione diventano un festival del mal di mare: attacchi di nausea, vomito, infiltrazioni d’acqua, guasti elettrici. Si scopre insomma che il Mediterraneo non è una piscina o un fondale per TikTok. In tanti non sanno nulla di mare, navigazione, vela. Gente che va a salvare Gaza ma ha bisogno di essere salvata dal primo temporale. Una versione marinara-antagonista dell’overtourism da montagna, coi neofiti del trekking che si presentano in massa sulle Dolomiti coi mocassini scamosciati.
Certo è che infilare viveri e medicine in una quarantina di barchette a vela di sei metri, tenendo conto che parecchie sono poi rientrate in porto, è un po’ come portare aiuti agli ucraini muovendosi da Roma con le Smart. Ma questo trionfo dell’improvvisazione sull’organizzazione, dell’euforia sulla competenza, rende in fondo la Flotilla globale molto italiana. Forse anche per questo tutto il paese segue con apprensione l’impresa. Le opposizioni si compattano. Meloni sconsiglia di insistere. I Cinque stelle occupano la camera mentre gli studenti issano striscioni nei licei occupati. “Buon vento!” dicono e scrivono un po’ tutti, da Loredana Bertè a Luca Casarini. “In un mondo sempre più dominato da egoismi, individualismi e istinti predatori”, spiega Scurati augurando buon vento alla Flotilla in un video, “questi uomini e queste donne si sono messi in mare ed è da loro che dipende la sopravvivenza morale di tutti noi”. Alè! A Roma, quartiere Testaccio, bambini in piazza giocano con piccole flotilline di carta preparate dai genitori. Subito vengono immortalati e rilanciati su Instagram con emoji all’anguria, come a dire la bontà, la spontaneità, la dolcezza e naturalmente la giustezza della causa. Altre barchette a mollo nella Fontana di Trevi per la gioia dei turisti. L’Italia è ormai una grande assemblea d’istituto. Anche i tifosi della Lazio appendono uno striscione al Colosseo: “Adelante Flotilla” ed è subito Inti Illimani (ma non erano tutti fasci?).
Il fatto è che non importa essere d’accordo su tutto, basta odiare le stesse cose: Israele, l’America, l’occidente, il capitalismo, la Nato. Gli ultrà hanno capito che la politica internazionale è ormai come il calcio. Gaza-Israele è il “clasico” del medio oriente, con le sue tifoserie globali, i suoi simboli, i suoi inni, due popoli-due stadi. M’incantano anche i toni epici della cronaca marinara sul Manifesto, come una versione antagonista dei cinegiornali che raccontavano le trasvolate di Italo Balbo: “E’ da poco passato mezzogiorno quando più di trenta barche spengono i motori e spiegano le vele. Dolcemente inclinate sul fianco destro, si lasciano alle spalle la punta meridionale della Sicilia e navigano spedite verso est, sfiorando i sette nodi”. “Dobbiamo chiaramente proteggere il diritto alla farsa e alla propaganda degli skipper che salvano la faccia all’umanità”, ha scritto Giuliano Ferrara in un gran pezzo sulla Flotilla di un paio di giorni fa. Anche perché, è chiaro, lo sappiamo bene, tutto questo non è davvero sui palestinesi. E’ su di noi. Su come noi occidentali abbiamo trasformato anche la solidarietà in una forma di intrattenimento personale, in un modo per sentirci meglio con noi stessi senza dover affrontare la complessità dei problemi che vorremmo risolvere. E’ attivismo come lifestyle brand, umanitarismo come reality show, politica come terapia di gruppo. Da tempo #FreePalestine è il contenitore vuoto in cui ognuno infila la propria rabbia personale. Un lasciapassare per l’indignazione morale ma anche per la violenza, gli scontri di piazza, il caos. Per molti quella bandiera è il simbolo della sofferenza palestinese. Ma è anche una macchina del tempo che ha rimesso in giro tutto il peggio della storia della sinistra e della destra: anticapitalismo, antioccidentalismo, antisemitismo, no Nato, ebrei cattivi, morte all’America, ecc.
Il fatto è che non importa essere d’accordo su tutto, basta odiare le stesse cose: Israele, l’America, l’occidente, il capitalismo, la Nato
La causa palestinese si può sposare in molti modi: scioperando, urlando in tv, schiumando di rabbia sui social, sfasciando Milano Centrale, marciando pacificamente, firmando appelli, indossando la fascia nera al braccio, occupando scuole e università, infilando “genocidio” in ogni frase, boicottando il Carrefour sotto casa, minacciando professori a lezione, volendo anche svolazzando in deltaplano sulla folla pro Pal, come un Vate del jihad. Ma la via più epica e romantica resta il mare. Il richiamo più potente di tutti. Anche per questo l’impresa radical-nautica conquista i cuori, prolunga la nostra estate, scatena desideri di libertà, barricate, fantasie di fuga. Chi, del resto, non sognerebbe un’avventurosa ribellione di fine estate in barca a vela, mentre la vita richiama al lavoro, alle ansie quotidiane, alla routine di sempre? Un mio collega di università mi parlava giorni fa della Flotilla. Lamentava lo scarso impegno della nostra Facoltà, il senso di impotenza: noi siamo qui a proporre mozioni per cessare i rapporti con gli atenei israeliani, diceva, “mentre dovremmo essere in mare con loro”. Mi ha ricordato quella scena del “Secondo tragico Fantozzi”, quando il ragionier Ugo vola giù dalla finestra e finisce sul tetto del 77 barrato delle cinque e ventisei. Mentre l’autobus fa il giro della città, Fantozzi ha tutto il tempo per un bilancio esistenziale. Immagina di cambiare vita, mollare tutto, fuggire con la signorina Silvani. Pensa a possibili soluzioni: “croupier a Casablanca”, “hippie nel Nepal”, “batterista ad Harlem”. Oggi non avrebbe dubbi: “attivista sulla Flotilla”. Via dalla megaditta, a bordo di un veliero, su e giù per il Mediterraneo, vento in poppa, torso nudo, kefiah al collo, puntando su Gaza via Mykonos, Creta, Santorini, forse anche Capri.