Foto Epa, via Ansa

James Comey accusato di falsa testimonianza. Una vendetta politica di Donald Trump

Marco Arvati

Le accuse sono due: falsa testimonianza di fronte al Congresso e di ostruzione dei lavori del Congresso. L’odio del presidente americano per Comey risale al primo mandato della sua presidenza

Dopo molteplici minacce su Truth Social, giovedì è arrivata la prima accusa formale per un avversario politico di Donald Trump, l’ex direttore dell’Fbi James Comey. L’atto d’accusa è molto scarno, di appena due pagine, e nemmeno ben chiaro nella spiegazione dei fatti di cui Comey viene chiamato a rispondere. Le accuse sono due: falsa testimonianza di fronte al Congresso, in quanto durante un’udienza avrebbe affermato di non aver autorizzato nessun agente dell’Fbi a diventare fonte anonima dei giornalisti riguardo l’investigazione di una persona, anonimizzata nel documento come Persona 1, e di ostruzione dei lavori del Congresso in merito a quella testimonianza, avvenuta a settembre 2020. Il sito specialistico Lawfare, che si occupa di analizzare il sistema giudiziario americano, lo ritiene un caso debolissimo, che non riesce a spiegare nemmeno in modo chiaro quale sia la falsa testimonianza di Comey: infatti, gli stessi giornali hanno riportato idee diverse, tra chi dice che l’investigazione di cui si parla nell’atto d’accusa riguardasse lo stesso Trump, e chi la Clinton Foundation. Secondo Lawfare, Comey potrebbe chiedere un’istanza di rigetto sulla base della persecuzione politica: le prove sarebbero i numerosi post che Trump ha pubblicato su Truth nei giorni precedenti in cui chiedeva apertamente che i suoi nemici venissero accusati di qualche reato e che “bisogna fare giustizia”.

Trump preme su Pam Bondi, la procuratrice generale, per avere capi d’accusa formali contro tre persone: il senatore della California Adam Schiff, reo di essere stato uno degli esponenti principali dei due tentativi di impeachment ai suoi danni durante il primo mandato, la procuratrice di New York Letitia James, che ha intentato una causa civile contro la Trump Organization, e proprio l’ex direttore dell’FBI James Comey. Per arrivare ad avere dei capi d’accusa Trump ha dovuto licenziare settimana scorsa il procuratore della Virginia orientale, Erik Siebert, da lui stesso nominato a inizio mandato, proprio perché si rifiutava di portare avanti questi casi, ritenuti non validi dal punto di vista giuridico, e che i procuratori del suo distretto si sarebbero rifiutati di co-firmare con lui. Dopo il licenziamento, che il Presidente ha festeggiato su Truth affermando apertamente che “non si è dimesso, l’ho fatto fuori io”, Trump ha nominato Lindsey Halligan, una sua fedelissima di scarsa esperienza giuridica. Dopo qualche giorno, Halligan ha firmato i capi d’accusa a Comey, nonostante nuovamente nessun procuratore di carriera della sua sezione abbia acconsentito a farlo insieme a lei. Alan Rozenshtein, insegnante alla Law School dell’Università del Minnesota, ha detto al New York Times che ci stiamo trovando di fronte al “collasso del Dipartimento di giustizia come organizzazione basata sul rispetto della legge”. Nel frattempo, Comey ha già risposto a Trump, e ha affermato di sapere bene cosa voglia dire non voler cedere al presidente: lo ha sfidato apertamente, dicendo che è la paura la più grande arma che i tiranni hanno nel loro arsenale.

L’odio di Trump per Comey risale al primo mandato della sua presidenza. È stato proprio Trump, infatti, a licenziarlo dal ruolo di direttore dell’Fbi a cui era stato nominato da Obama nel 2013: lo ha fatto dopo che Comey ha confermato che stava investigando su possibili interferenze della Russia in aiuto allo stesso Trump nella campagna elettorale del 2016. Proprio il licenziamento improvviso di Comey a seguito di questa rivelazione aveva convinto l’allora vice-procuratore generale Rod Rosenstein a nominare un procuratore speciale, Robert Mueller, per indagare sul caso, definito dalla stampa Russiagate e che Trump ha sempre bollato come una persecuzione politica e una caccia alle streghe voluta dal “deep state” democratico. Dopo due anni di indagini, Mueller arrivò alla conclusione che la Russia aveva provato a interferire nelle elezioni ma non aveva trovato elementi significativi che provassero un coinvolgimento diretto di membri della campagna Trump. Quando il presidente parla di Comey come di un suo persecutore politico, evita di ricordare il ruolo involontario dell’allora direttore dell’Fbi nella sua vittoria. A giugno del 2016, infatti, decise di chiudere il caso riguardante l’utilizzo da parte di Hillary Clinton di un server privato per archiviare mail classificate durante il suo incarico da segretaria di Stato nel primo mandato della presidenza Obama. Nel farlo, però, organizzò una conferenza stampa in cui affermò che era vero che mancavano gli elementi per un’azione legale, ma che la condotta di Clinton era stata sconsiderata e avventata. Una frase che la campagna repubblicana riutilizzò per mesi, fino a quando pochi giorni prima delle elezioni Comey riaprì nuovamente il caso in virtù di nuove mail precedentemente non analizzate. Il caso venne chiuso poco prima del giorno delle elezioni, ma nel frattempo Clinton aveva subito un calo considerevole nei sondaggi: l’analista di dati Nate Silver ha affermato che questa riapertura fu determinante nella sconfitta della candidata democratica. Mentre Trump continua ad affermare che per un decennio il Dipartimento di Giustizia è stato un’arma politica usata contro di lui, ha generato la più grande saldatura tra potere giudiziario ed esecutivo della storia moderna del Paese.

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