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Scambi commerciali
A Pechino conviene la guerra di Putin in Ucraina
La Cina parla di pace e illude molti europei, ma è nel suo interesse che l’aggressione di Mosca a Kyiv continui perché il conflitto rafforza la sua posizione economica, militare e geopolitica. La prova più evidente sta nella trasformazione degli scambi commerciali tra i due paesi
Ieri il Financial Times ha riportato che una nave cargo cinese, la Heng Yang 9, ha attraccato nel porto di Sebastopoli, nella Crimea occupata dai russi. La nave, battente bandiera panamense ma di proprietà della Guangxi Changhai Shipping Company, con sede in Cina, è stata avvistata in porto almeno tre volte negli ultimi mesi: si tratta delle prime visite di un grande mercantile straniero dall’annessione della penisola nel 2014. L’episodio rappresenta una svolta rispetto alla linea finora seguita da Pechino: pur non aderendo al regime di sanzioni occidentali contro Mosca, le navi cinesi avevano sempre evitato gli scali sotto controllo russo. Le soste seguono l’apertura, ad aprile, di una nuova linea ferroviaria che collega la Russia alla Crimea per favorire il traffico dei container, e la decisione delle autorità di Mosca, ad agosto, di aprire agli stranieri anche i porti occupati di Berdyansk e Mariupol.
In Europa, e in particolare in Italia, c’è invece chi sostiene che l’Unione europea avrebbe dovuto coinvolgere la Cina in modo più attivo, con l’obiettivo di convincere Pechino a esercitare pressioni su Mosca affinché ponesse fine alla guerra contro l’Ucraina. Il ragionamento è semplice: la Cina è il partner commerciale più importante della Russia, conserva canali di influenza che gli stati occidentali non hanno, e non ha aderito al regime di sanzioni. Tuttavia, questa aspettativa si fonda su una lettura errata degli interessi cinesi. Per Pechino, la guerra in Ucraina non è una crisi da risolvere, ma un’opportunità da sfruttare. Ben lontana dal voler spingere la Russia verso la pace, la Cina ha ogni interesse a vedere il conflitto protrarsi, perché la guerra rafforza la sua posizione economica, militare e geopolitica.
La prova più evidente sta nella trasformazione degli scambi commerciali tra i due paesi. Nel 2020 il commercio bilaterale ammontava a poco meno di 109 miliardi di dollari. Nel 2021 era già salito a circa 146,9 miliardi e nel 2022 era balzato oltre i 190 miliardi. Nel 2024 la cifra ha raggiunto il record di 244,8 miliardi di dollari. Questa crescita esponenziale non può essere spiegata con normali dinamiche economiche: è la conseguenza diretta della rottura della Russia con l’occidente dopo l’invasione su larga scala dell’Ucraina. Tagliata fuori dai mercati europei, dalle tecnologie e dalla finanza occidentale, Mosca non ha avuto altra scelta che rivolgersi a oriente. La Cina è diventata non solo il suo principale partner, ma quello dominante.
La composizione di questi scambi rende l’asimmetria ancora più evidente. Nel 2024 la Russia ha esportato in Cina beni per circa 129,3 miliardi di dollari, in larghissima parte risorse energetiche come petrolio, gas e carbone. La Cina, dal canto suo, ha esportato verso la Russia circa 115,5 miliardi di dollari in macchinari, veicoli, apparecchiature elettroniche, strumenti industriali e beni di consumo. Non si tratta di un rapporto paritario: la Russia fornisce materie prime a prezzi scontati, la Cina fornisce beni manufatti e tecnologie che Mosca non può reperire altrove. Ogni anno di guerra consolida questo schema, spingendo la Russia in una posizione di dipendenza che permette a Pechino di dettare le condizioni. Una fine prematura del conflitto interromperebbe questo processo, restituendo a Mosca parte della leva che ha perduto. La dimensione energetica mostra con chiarezza quanto squilibrato sia diventato il rapporto. Nel 2023 la Russia ha esportato in Cina 22,7 miliardi di metri cubi di gas naturale attraverso il gasdotto Power of Siberia, in netto aumento rispetto ai 15,4 miliardi dell’anno precedente, con un obiettivo di 38 miliardi entro il 2025. I piani a lungo termine, come il Power of Siberia 2, mirano a portare i flussi a quasi 100 miliardi di metri cubi all’anno. Anche il petrolio greggio racconta la stessa storia: nel 2023 la Cina ha importato 107 milioni di tonnellate di petrolio russo, con un incremento di quasi un quarto rispetto al 2022. Queste non sono semplici statistiche commerciali: rappresentano un cambiamento strutturale. Il mercato europeo che un tempo ancorava gli idrocarburi russi è ormai svanito, e Pechino è divenuta l’acquirente indispensabile, spesso in grado di imporre prezzi e condizioni. Più a lungo durerà la guerra, più profondo diventerà questo squilibrio, trasformando la Russia in un partner minore in una relazione da cui la Cina trae enormi profitti. Porre fine al conflitto significherebbe arrestare questo processo di dipendenza, privando Pechino di una leva strategica.
Oltre agli idrocarburi, la Cina trae vantaggio anche dal sostegno alle capacità militari russe. Pur evitando di fornire apertamente armamenti letali, Pechino è divenuta una fonte essenziale di beni a duplice uso che mantengono in funzione la macchina bellica russa. Componenti per droni, ottiche, sensori, microelettronica e macchine utensili affluiscono dalla Cina alla Russia, spesso indirettamente o attraverso intermediari. Queste tecnologie non sono armi in sé, ma rendono possibile la produzione e l’impiego di armamenti. Si stima, per esempio, che quasi metà dei componenti del drone russo Geran-3 provenga dall’estero, con fornitori cinesi in prima linea. Non meno significativo è l’aumento delle esportazioni cinesi di macchine utensili Cnc, che consentono all’industria russa di produrre internamente hardware militare sofisticato nonostante le sanzioni occidentali. Questi flussi non sono semplici operazioni commerciali: sono ciò che mantiene in vita l’industria della difesa russa. Per Pechino, questo assetto è doppiamente utile. La Russia riceve input cruciali che le permettono di continuare a combattere, mentre la Cina non solo guadagna economicamente ma ottiene anche informazioni e conoscenze operative. L’Ucraina è, di fatto, un vasto laboratorio di guerra, dove l’efficacia di droni, contromisure, guerra elettronica e sistemi missilistici può essere osservata in tempo reale. Per i pianificatori militari cinesi, che devono costantemente valutare scenari legati a Taiwan, queste lezioni sono preziosissime. Inoltre, il know-how militare avanzato russo, in settori come i motori a reazione, i sistemi missilistici e la tecnologia nucleare, continua a fluire verso la Cina, poiché Mosca ha bisogno di mantenere l’appoggio di Pechino.
Il dividendo strategico è altrettanto rilevante. Ogni anno che la guerra continua, gli Stati Uniti e i loro alleati destinano risorse immense all’Ucraina, ma l’equilibrio di questo impegno sta cambiando. Se prima Washington con l’Amministrazione Biden stanziava decine di miliardi in aiuti militari e finanziari, ora con Donald Trump, che ha bloccato l’assistenza militare diretta a Kyiv, i governi europei sono chiamati a comprare armi dai produttori americani con fondi propri, per poi trasferirle all’Ucraina. Questo meccanismo, unito al disinteresse esplicito di Trump per la salvaguardia delle relazioni transatlantiche, sta logorando i rapporti tra Stati Uniti e partner europei. Per la Cina, queste frizioni rappresentano un dividendo inatteso: un occidente distratto e diviso è esattamente lo scenario geopolitico che le consente di espandere la propria influenza con minori vincoli.
Al tempo stesso, la guerra permette alla Cina di accreditarsi come potenza globale responsabile.
Pechino invoca ripetutamente il “dialogo” e la “negoziazione”, presentandosi al Sud globale come un attore pacifico, distinto sia da Washington e Bruxelles sia da Mosca. Questa narrazione trova eco in molti paesi che guardano con scetticismo alle sanzioni occidentali e che diffidano dell’ordine percepito come a guida statunitense. Mantenendo questo equilibrio retorico, approfittando dell’isolamento russo e al contempo invocando la pace in linea di principio, la Cina rafforza la sua posizione diplomatica senza assumersi i costi della mediazione. Va sottolineato che Pechino non vuole il collasso della Russia o la sconfitta russa in Ucraina. Una Russia instabile, potenzialmente frammentata sotto la pressione interna o scossa da un cambio di regime, rappresenterebbe enormi rischi lungo il suo vasto confine settentrionale. Ma proprio per questa ragione, la Cina preferisce l’attuale status quo e “punto di equilibrio”: una Russia indebolita ma non distrutta, dipendente ma non disgregata, sempre più malleabile, impegnata in una guerra che si trascina senza soluzione e che mantiene l’occidente distratto e diviso.
Chi suggerisce che la Cina possa essere persuasa a spingere Mosca verso la pace fraintende questo calcolo. La guerra accresce il potere economico di Pechino, le garantisce approvvigionamenti energetici a condizioni favorevoli, le offre dividendi militari e tecnologici e le regala vantaggi geopolitici di primo piano. La Cina continuerà a parlare il linguaggio della pace, ma le sue azioni sono guidate dall’interesse. Per Pechino, questa non è una crisi da risolvere, ma un’opportunità da gestire. E finché la guerra servirà ai suoi obiettivi, non avrà alcun motivo per mettervi fine.