Foto: LaPresse.

Il Colloquio

Senza due stati non ci sarà pace in medio oriente. Parla Fawaz Gerges

Davide Mattone

Alla vigilia dell’Assemblea generale dell'Onu, il professore della London School of Economics, tra i maggiori esperti al mondo di medio oriente, ripercorre il ruolo di Washington e il riconoscimento dello stato di Palestina da parte di molti paesi occidentali 

“Sempre più stati hanno capito che non si può delegare a Washington la pace tra israeliani e palestinesi”. A parlare al Foglio è Fawaz Gerges, professore alla London School of Economics di Relazioni internazionali, già a Harvard, Oxford e Columbia, uno dei maggiori esperti mondiali di medio oriente che, alla vigilia della settimana dell’Assemblea generale delle nazioni unite (Unga), ricostruisce, dal suo punto di vista, che cosa sta accadendo. 

L’Unga è la sessione annuale in cui capi di stato e di governo intervengono in plenaria e negoziano risoluzioni dell’Assemblea: atti non vincolanti, ma politicamente impegnativi. New York accoglie l’Unga con le forze israeliane dentro Gaza City e una crisi alimentare che colpisce la Striscia. Israele rivendica la legittima difesa contro Hamas, organizzazione terroristica responsabile del massacro del 7 ottobre e della presa di ostaggi, mentre i mediatori lavorano alla tregua e allo scambio di prigionieri. In parallelo riprende la “Conferenza per la soluzione pacifica della questione della Palestina”, iniziativa franco-saudita, e molti paesi occidentali si preparano a riconoscere lo stato palestinese.

Secondo Gerges, lunedì non nascerà uno stato palestinese. “Non si parla, per ora, di uno stato in concreto – spiega – Ci saranno annunci e dichiarazioni di riconoscimento, ma nella pratica non significano nulla di concreto: non definiscono confini, non creano istituzioni, non cambiano il controllo del territorio”. Nella lettura di Gerges, ciò che vedremo in aula è il prodotto di un movimento transnazionale che va dalla Francia alla Spagna, dal Belgio al Regno Unito, e che comprende anche Sud Africa e Brasile, assieme ad alleati storici degli Stati Uniti come Australia, Canada e Nuova Zelanda. “Un numero crescente di paesi ha smesso di affidarsi a Washington per far avanzare il processo di pace”, sostiene l’esperto. Il fil rouge è la perdita di fiducia: “Per decenni gli Stati Uniti hanno detenuto il monopolio della mediazione per il processo di pace. Oggi – sostiene il professore – si presentano schierati al cento per cento con Israele contro le aspirazioni palestinesi all’autodeterminazione”, e questo spiega le prese di posizione che si vedranno a New York.


Il nodo centrale resta la prospettiva dei due stati: “Dal 1967 in poi la proposta degli stessi Stati Uniti è stata la soluzione a due stati: uno  israeliano, in sicurezza accanto a un altro palestinese demilitarizzato. “Questo quadro – sostiene  Gerges – è cambiato. C’è stato un mutamento sostanziale: gli Stati Uniti non solo non sostengono più l’idea di uno stato palestinese, ma si oppongono perfino al riconoscimento fatto dai loro stessi alleati”, dice il professore, arrivando ad accusare Washington di valutare l’idea di avallare annessioni israeliane in Cisgiordania, citando il ministro israeliano Bezalel Smotrich: “Seppelliremo l’idea di uno stato palestinese”. E aggiunge: “La guerra a Gaza ha risvegliato molte capitali davanti alla durezza del conflitto e alla sua brutalità. L’attacco di Hamas del 7 ottobre è stato orrendo e brutale – premette –  ma il contesto  resta l’occupazione del suolo palestinese”.

Gerges punta il dito sugli Stati Uniti, prima e dopo Trump: “Per anni è stata soprattutto retorica: nessuna vera pressione su Israele”. Poi ricorda l’inizio dell’Amministrazione Obama: “Nel 2009 Barack Obama chiese al premier Benjamin Netanyahu di fermare gli insediamenti in Cisgiordania. Netanyahu lo redarguì pubblicamente, accusandolo di non saper nulla del medio oriente. Nelle sue memorie Obama ammette di non averlo sfidato fino in fondo, ricordando che i costi politici sarebbero stati troppo alti per il Partito democratico”. Per Gerges “era una maschera: quei costi sarebbero stati alti per lui stesso. Persino il presidente più progressista finora, e se c’è un presidente che conosce il medio oriente è Obama, decise di non imporsi su Netanyahu”. “Oggi – prosegue – gli Stati Uniti non fingono più di essere un mediatore imparziale: si oppongono attivamente alla creazione di uno stato palestinese e minacciano sanzioni contro i paesi occidentali che intendono riconoscerlo”. E’, nelle sue parole, “una svolta storica”.

Su questo sfondo avanza l’onda dei riconoscimenti. Secondo il professore della Lse,  “entro la settimana si potrebbe superare la soglia di centosessanta paesi su centonovantre a favore del riconoscimento della Palestina”. Poi ribadisce: “Non è la nascita in concreto di uno stato palestinese. Si tratta di riaffermare il principio dei due stati e di dare ai palestinesi un sostegno psicologico e simbolico: la prova che la loro voce è ascoltata. Quelle nazioni hanno scelto di opporsi alla brutalità del conflitto e di dire all’America e a Israele: non potete fare a modo vostro. I palestinesi esistono come una comunità immaginata. Esistono come collettività, non soltanto come persone disperate”.

Il giudizio sul governo israeliano è severo e va riportato come tale. Nell’analisi di Gerges, “lo stato ebraico non vuole un piano per Gaza né per i palestinesi, ma punta a mantenere l’occupazione, a separare la Cisgiordania da Gerusalemme est e ad annetterne de facto l’ottantadue per cento di essa. In parallelo, Israele vuole rendere la Striscia invivibile per spingere i civili alla fuga, sulla scia di un ‘piano Trump’ che riconvertirebbe Gaza in un’operazione immobiliare, e di fatto archivierebbe l’idea stessa dei due stati”. Sono tesi controverse e contestate da Israele, che continua a rivendicare la propria difesa contro un gruppo terroristico responsabile di attacchi deliberati contro civili.

Resta la questione del day after a Gaza, e di cosa succederà con Hamas. Riguardo al tipo di stato palestinese che potrebbe emergere in futuro spiega: “Lo schema che circola prefigura uno stato demilitarizzato e pluralista in cui Hamas non avrebbe ruolo. E’ una corsa contro il tempo tra chi, nella coalizione di governo israeliana, tenta di svuotare quel principio attraverso annessioni progressive e chi, nella comunità internazionale, prova a proteggerlo perché senza due stati la regione è condannata a una guerra senza fine”. Ma spiega: “Hamas non scomparirà per decreto. La domanda è come garantire che non governi Gaza. Ma penso che la sfida che i palestinesi si trovano ad affrontare è anche questa”, afferma Gerges. 

La via d’uscita, secondo l’esperto, passa dal voto: “I palestinesi sono un popolo intelligente. Se gli sarà data la possibilità, sceglieranno ciò che è meglio per loro, e dunque una rappresentanza nuova capace di mettere in pratica un pluralismo reale. Senza Hamas, e probabilmente senza l’Olp (Organizzazione per la liberazione della Palestina): la leadership palestinese ha fallito nei confronti del suo popolo”. Ma, in parallelo, per Gerges è essenziale una presenza internazionale sotto egida Onu: “Si discute di una forza di sicurezza composta da paesi europei e arabi, tra cui Giordania, Egitto, paesi del Golfo, con un ruolo guida per i prossimi dieci anni, incaricata di mettere in sicurezza il territorio, preparare le elezioni, smantellare le capacità militari dei gruppi armati e aprire corridoi umanitari. E’ essenziale”. 

Quello che verrà deciso all’Unga non è uno step concreto di costruzione statuale. “Non si sta creando la Palestina. Si sta tentando di salvaguardare l’idea di una possibile soluzione a due stati, perché senza quell’orizzonte la guerra non finisce”.
 

Di più su questi argomenti: