
dopo l'attacco israeliano
L'imbarazzo americano (e arabo) con il Qatar e i tentativi per riportarlo alla mediazione
"Israele ha inviato un messaggio chiaro a Hamas, che non è immune, ovunque si dovesse nascondere. E anche ai qatarini, che non possono giocare su tutti i fronti", dice Yoel Guzansky, ricercatore senior presso l’Institute for national security studies (Inss) di Tel Aviv
Tel Aviv, dalla nostra inviata. Il giorno dopo l’attacco di Israele a Doha per colpire la leadership di Hamas, il presidente degli Emirati Arabi Uniti, Mohammed bin Zayed al Nahyan, e il principe ereditario di Giordania Hussein sono atterrati nella capitale del Qatar per mostrare solidarietà all’emiro, ma dietro le quinte le reazioni dei paesi del Golfo sono state molto diverse. “In realtà alcuni paesi arabi sono contenti dello strike, non sono affatto d’accordo con la politica estera qatarina, sono stati in conflitto fino a poco tempo fa o lo sono tuttora. A porte chiuse stanno brindando, pubblicamente condannano Israele: è l’ipocrisia del medio oriente”, dice al Foglio Yoel Guzansky, ricercatore senior presso l’Institute for National Security Studies (Inss) di Tel Aviv, specializzato in politica e sicurezza del Golfo. Per il presidente degli Stati Uniti Donald Trump la decisione di “bombardare unilateralmente il Qatar” è stata unicamente del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, e nonostante eliminare Hamas, “che ha tratto profitto dalla miseria di chi vive a Gaza”, sia un obiettivo legittimo, “non promuove gli obiettivi di Israele o dell’America”, ha scritto su Truth.
Secondo Guzansky, “l’Amministrazione americana è molto in imbarazzo, perché è in buoni rapporti sia con il Qatar sia con Israele. Ma è ovvio che Israele non avrebbe potuto agire senza l’approvazione degli Stati Uniti, e questo li mette in una situazione molto fragile nei confronti del Qatar”. Trump, dice il ricercatore dell’Inss, cercherà nelle prossime settimane di fare pressione sui qatarini per appianare la situazione e tornare al tavolo delle trattative, “nei prossimi giorni, forse settimane, sarà difficile riavviare i negoziati. Hanno bisogno di guadagnare tempo, salvare la loro reputazione e condannare Israele, ma alla fine torneranno al tavolo perché hanno bisogno del loro ruolo di mediatori”.
Con l’attacco a Doha, Netanyahu voleva la “foto della vittoria” e tentare “di eliminare l’intera leadership di Hamas in un solo colpo”, ma se Israele non fosse riuscito a uccidere i leader di Hamas, ci riuscirà la prossima volta, ha detto l’ambasciatore israeliano negli Stati Uniti, Yechiel Leiter. Secondo il ricercatore dell’Inss sarà molto difficile colpire di nuovo il Qatar, per Trump è fuori discussione, e ieri i principali media in Israele hanno iniziato a mostrare pessimismo sull’esito dell’attacco in cui, secondo quanto dichiarato da Hamas, sarebbero stati uccisi cinque dei suoi membri tra cui il figlio del principale negoziatore in esilio a Gaza e vice di Yahya Sinwar, Khalil al Hayya.
Una fonte anonima ha dichiarato al notiziario di Channel 12 che “non ci sono indicazioni” che i principali leader del gruppo terroristico siano stati uccisi: “Continuiamo a sperare che siano stati assassinati, ma l’ottimismo sta svanendo”. Ieri i famigliari degli ostaggi ancora nella Striscia di Gaza si sono riuniti come tutte le sere in Piazza degli Ostaggi, a Tel Aviv per manifestare contro il governo Netanyahu, per molti parenti l’attacco a Doha è considerato la pietra tombale che segna la fine dei negoziati, per alcuni può essere invece l’ultimo sforzo per mettere pressione su Hamas ad accettare il rilascio dei 48 rapiti ancora nella Striscia. Anche se l’attacco si dovesse rivelare fallimentare, “Israele ha inviato un messaggio chiaro”, dice Guzansky: “A Hamas, che non è immune, che ovunque si dovesse nascondere, Israele lo troverà. E anche ai qatarini, che non possono giocare su tutti i fronti. Non possono far parte della comunità internazionale e nel frattempo ospitare terroristi e finanziarli: questo doppio gioco non funziona più”.